«La prostituzione non costituisce di per sé reato» e, sulla base di questo presupposto, è illegittimo un provvedimento di rimpatrio costruito esclusivamente sulla contestazione della professione “più antica del mondo”. Il principio è stato sancito dalla prima sezione del Tar, che nei giorni scorsi si è occupato della posizione di una prostituta donna e di un trans che erano stati colti in flagrante, nel 2012, dagli agenti del commissariamento di Polizia di Lido. Dal blitz dei poliziotti era scaturita una relazione al questore, che ha adottato un ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio: «I due soggetti confermavano di usare l’appartamento dove sono stati individuati per prostituirsi e confermavano altresì di abitare in codesta zona da circa 4 anni. Considerata la vicinanza di un molte villette e di genitori che accompagnano tutte le mattine i figli minori agli istituti scolastici, e obbligatoriamente devono transitare dal luogo ove sono stati controllati i due extracomunitari, venivano condotti negli uffici di Polizia per l’emissione del provvedimento del rimpatrio del foglio di via obbligatorio ». Con provvedimento del questore, perciò,le due “lucciole” venivano rimpatriate, con foglio di via obbligatorio, nel Comune di Marcon (Ve), in cui risiedevano, con obbligo di presentarsi al sindaco entro due giorni dalla notifica del provvedimento. Con lo stesso provvedimento, si vietava ai due di fare ritorno prima di tre anni. Secondo la Questura, le due “lucciole” non avrebbero avuto alcun valido motivo per trattenersi in Calabria e, pertanto, sarebbero «da ritenersi persone pericolose per la sicurezza e la tranquillità pubblica ». Di parere opposto i due destinatari del provvedimento. Che hanno fatto ricorso al Tar. Ed hanno ottenuto prima la sospensione del foglio di via e, adesso, l’annullamento. Nel ricorso si rilevava fra l’altro che non sussisterebbero «i presupposti previsti dagli artt. 1 e 2 della legge 1956 n. 1423 ai fini dell’emissione del provvedimento di rimpatrio con foglio di via obbligatorio. Tali presupposti – continuava il ricorso – sarebbero costituiti, dal un lato, dalla riconducibilità del soggetto che si trovi fuori dal luogo di residenza ad una delle categorie indicate nell’art. 1 (soggetti dediti a traffici delittuosi, soggetti che vivono abitualmente con i proventi di attività delittuose, soggetti dediti commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica) e, dall’altro, dalla pericolosità per la sicurezza pubblica». Fra l’altro il rimpatrio con foglio di via obbligatorio presupporrebbe «un giudizio di pericolosità per la sicurezza pubblica da motivare con riferimento a concreti comportamenti attuali dell’interessato, che rivelino un’apprezzabile probabilità di condotte penalmente rilevanti da parte di un soggetto rientrante in una delle categorie previste dall’art. 1 della legge 1956 n. 1423». E da parte sua «il provvedimento impugnato non individua a quale delle categorie enucleate dall’art. 1 della legge 1956 n. 1423 apparterrebbero i ricorrenti, giacché riferirebbe solo delle indagini in relazione attività di prostituzione. Tale attività – concludevano analogamente i due ricorsi –non integrerebbe un fatto di reato, con conseguente impossibilità di ricondurre una prostituta nelle categorie dettagliatamente tipizzate dall’art. 1 della legge n. 1423». Tesi, quest’ultime, che hanno i convinto i giudici del Tar secondo i quali la Questura «ha omesso di assolvere l’onere su di essa incombente di indicare gli elementi di fatto sui quali si basa il giudizio sull’appartenenza ad una delle categorie legali, nonché le ulteriori circostanze inerenti l’attuale pericolosità sociale dei soggetti. Occorre tenere presente – si legge ancora nella sentenza – che la prostituzione non costituisce di per sé reato e non può, quindi, essere l’indice di una vita che fondi i propri mezzi di sussistenza sui ricavi di un’attività criminosa». D’altra parte,« è del tutto priva di adeguata motivazione» l’affermazione secondo cui i ricorrenti sono da ritenersi «persone pericolose per la sicurezza e la tranquillità pubblica», in quanto basata «unicamente su precedenti» e «sfornita di qualsiasi precisazione in ordine all’accertamento di una concreta e specifica pericolosità desunta da un particolare comportamento». Ergo, le due “lucciole” sono libere di restare quanto vogliono in Calabria.