Condanne per tutti al processo dal quale esce fuori che il clan dei Giampà esiste. Controllava da decenni la zona di Nicastro Sud, Via del Progresso e dintorni, incassando il pizzo da commercianti, artigiani e piccole industrie, vendendo droga e truffando le compagnie di assicurazioni. Ieri sera il Gup Giovanna Mastroianni dopo cinque ore di camera di consiglio ha creduto praticamente a tutto quello che hanno detto i pentiti, a cominciare dal giovane boss Giuseppe Giampà, condannato anche lui a 6 anni e 8 mesi di carcere. Se qualcuno aveva avuto dubbi che il castello accusatorio crollasse dopo gli arresti del 28 giugno dell’anno scorso di 36 tra capi e gregari del clan, ieri ha avuto la conferma che hanno tenuto sia le rivelazioni dei pentiti, sia i riscontri raccolti da polizia, carabinieri e guardia di finanza in un lavoro certosino durato oltre due anni. A coordinarlo la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro con il procuratore Vincenzo Lombardo ed il suo vice Giuseppe Borrelli. Dell’attività processuale, quella forse più pesante, s’è occupato Elio Romano, per molti anni sostituto procuratore a Lamezia ed oggi interessato ai processi in corso nella Piana. Che non si esauriscono certamente con quello finito ieri. Perchè la Dda ha seguito una strategia processuale ben precisa: prima ha istruito il processo per associazione mafiosa, quello per cui ieri c’è stata la sentenza di condanna; poi ha contestato diversi omicidi di ‘ndrangheta ai killer ed i loro aiutanti, mandati da Giuseppe Giampà, che li ha confessati uno per uno. Il giovane boss, figlio di Francesco il “Professore”, capo storico del clan in galera da anni (ha tante di quelle condanne che difficilmente ne uscirà), collabora con la giustizia dallo scorso settembre, e risiede in una località segreta con la moglie Franca Teresa Meliadò, anche lei pentita, ed i figli. Il suo pentimento non è arrivato perchè improvvisamente redento. In sostanza il “Presidente”, così lo chiamavano i suoi, è stato travolto da un’ondata di accuse dai suoi dipendenti più fidati, come Angelo Torcasio e Battista Cosentino. Inizialmente la scorsa estate ha reagito cercando di intimidire con le bombe i familiari dei due pentiti. Sette esplosioni in un paio di mesi. Poi probabilmente ha capito che non c’erano vie d’uscita. E due mesi dopo l’arresto ha cominciato a vuotare il sacco. Il clan aveva pure una “talpa” tra i carabinieri, l’appuntato Roberto Gidari che riferiva degli sviluppi delle indagini a Battista Cosentino, che poi riportava ai capi del clan ogni notizia preziosa. Anche Gidari è stato condannato. Ma per un carabiniere accusato di collaborazione con la ‘ndrangheta, ci sono tantissimi altri esponenti delle forze dell’ordin che si sono dati un gran da fare per cercare riscontri alle dichiarazioni dei pentiti, carpire intercettazioni attraverso le “cimici”, e raccogliere le prove che hanno portato alla prma vera condanna di un intero clan mafioso lametino. Adesso gli inquirenti fanno intendere d’essere pronti a far scattare la fase 2 dell’indagine, quella che andrebbe a colpire anche la “zona grigia” rimasta finora coperta da diversi “omissis” nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Le indagini sono rivolte anche verso altri clan cittadini, come quello dei Iannazzo che controllano i quartieri di Sambiase e Sant’Eufemia, inclusa la zona industriale. Quello cioè che finora non è stato nemmeno scalfito dalle inchieste degli inquirenti, eppure viene dato come affiliato a clan più diffusi in Calabria come i Mancuso di Limbadi e i Pesce di Rosarno. Intanto il vuoto di potere lasciato dal clan Giampà è un altro rebus per gli investigatori. Pronti ad assicurare l’esistenza di piccole gang emergenti, che però finora non hanno vere e proprie strategie e tentano in tutti i modi di imporre il loro potere persuasivo compiendo intimidazioni.