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Con Torcasio
e con Giampà

  Appartenere ad una famiglia di ‘ndrangheta rappresenta anche un’occasione per lavorare. Per i cittadini ed giovani disoccupati onesti in cerca di lavoro questo concetto è un paradosso, ma è del tutto normale per chi appartiene ad una famiglia mafiosa. Proprio così, essere un mafioso è sinonimo di lavoro. È una realtà che contrasta con il mondo civile, con le regole del mercato e della legge, ma i mafiosi intendono l’appartenenza ad una ‘ndrina un criterio per lavorare. Una verità amara, ma è ciò che emerge dalla lettura delle dichiarazioni di Umberto Egidio Muraca, diventato collaboratore di giustizia dopo essere finito nella varie inchieste dalla Dda di Catanzaro. Nell’esporre il suo concetto di ‘ndranghetista, nonostante fosse il titolate di un negozio col padre, ha spiegato che «essere associato ad una cosca generalmente è considerato come un lavoro». Un’occupazione pericolosa, ma che lui riteneva redditizia e proficua, e che veniva pianificata quotidianamente attraverso riunioni nel corso delle quali venivano impartiti sintetici ordini operativi. Muraca, arrestato nelle operazioni “Medusa” e “Perseo”, ha spiegato agli inquirenti: «Noi della cosca Cerra-Torcasio-Gualtieri, alla quale io appartengo dal 2008/2009 fino alla data in cui sono stato arrestato, tutti i giorni ci associavamo, vedendoci o contattandoci per telefono o tramite Facebook e comunque tenendoci aggiornati delle illecite attività del clan attraverso le cosiddette “imbasciate”».

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