Il giovane boss è in carcere quando raccoglie le prime voci sul fidatissimo Angelo Torcasio che decide di spifferare ogni cosa ai magistrati. I due si trovano a Siano. Torcasio improvvisamente sparisce dalle celle. Racconta Giuseppe Giampà: «Hanno detto che stava male e che l’avevano portato in infermeria. Ma era solo una scusa». Il pentimento di Torcasio fa tremare il clan. Chi è fuori dalla galera e chi è dentro. Dal carcere il boss dà ordini ai suoi che sono ancora liberi di fare sparire lo scooter servito a eliminare Francesco Torcasio “Carrà”. È l’estate del 2011. La guerra tra Giampà e Torcasio sparge ancora sangue in città. Passa qualche mese e cominciano a parlare Battista Cosentino, alter ego di Pasquale Giampà “Millelire” in carcere per l’estorsione a Rocco Mangiardi. Ed a Natale vanno in regime di protezione tutti i Cappello. Quelli della montagna ne sanno di cose, e non solo dei Giampà, visto che hanno buoni rapporti anche con la cosca Iannazzo della parte Ovest della città. «Eravamo molto preoccupati», ammette Giuseppe Giampà al processo “Perseo”. Il boss si vede solo di spalle sui due video dell’aula, con un cappellino di lana scuro, maglione bordeaux e il collo di pelliccia del suo giaccone attaccato alla sedia. La videoconferenza non permette di vedere in faccia il pentito, che da oltre due anni vive lontano dalla città con la sua famiglia, ha probabilmente un nome diverso, e fa una vita normale dopo aver sentenziato una ventina di condanne a morte quasi tutte eseguite dai suoi killer. Gli avvocati anche nell’0udienza di ieri non gli danno respiro. Rievocano racconti e deposizioni. Gli avvocati Renzo Andricciola e Mario Murone l’incalzano sulle truffe alle assicurazioni. Chiedono particolari. «Non ricordo granchè perchè tutti gli incidenti erano fasulli», risponde. La cosca simulava incidenti stradali con feriti e incassava soldi dalle compagnie assicurative. Secondo una ricostruzione sommaria in pochi anni ci sono stati 300 certificati medici falsi che attestavano finti feriti, e circa 200 mila euro di risarcimenti per danni inesistenti. Dove finivano questi soldi? L’ha chiesto anche il presidente della Corte Carlo Fontanazza. Dalle risposte vaghe del “Padrino”, questo il grado di ‘ndrangheta che s’era guadagnato sul campo il giovane figlio di Francesco il “Professore”, non viene fuori un quadro aziendale florido. Soldi ne circolano, arrivano dal narcotraffico e dalle estorsioni, ma vengono divisi tra un centinaio di persone con un sistema approssimativo, senza regole precise. In un clan dove le liti interne erano all’ordine del giorno, e si risolvevano con sparatorie, incendi e scazzottate. Poi i tentativi di screditare il boss. Secondo alcuni avvocati si drogava, ma lui nega fermamente. Si dava ai festini con ragazze compiacenti sul laterale, ma Giampà smentisce. L’avvocato Leopoldo Marchese gli ricorda: «Torcasio ha detto di averla vista col naso imbiancata dalla cocaina». Risposta un po’ ironica un po’ amara: «Cos’era, farina?». Giuseppe Giampà resiste a quattro lunghe udienze tutte dedicate a lui. Dopo quelle con gli interrogatori di Angelo Torcasio, primo dei 18 pentiti del clan, e di Saverio Cappello. Martedì toccherà a Umberto Egidio Muraca. Un altro discendente d’una famiglia che aveva molto potere in città negli anni Settanta. Ma il suo omonimo finì ammazzato nel suo negozio di Corso Nicotera. Da un clan rivale.
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