Stavano tentando di ricostruire il potere della cosca sulle macerie lasciate dal boss Giuseppe Giampà che s’è pentito cinque anni fa. Il clan sembrava finito, invece dal carcere l’ergastolano Vincenzo Bonaddio, zio del giovane boss, muoveva ancora i fili delle estorsioni e delle intimidazioni ai commercianti di Lamezia, che continuano a rimanere vittime anche dopo gli oltre 200 arresti di mafiosi negli ultimi anni, con condanne anche in appello.
L’annuncio ieri mattina da Nicola Gratteri. Il procuratore antimafia di Catanzaro ha spiegato: «Nonostante i colpi inferti negli anni scorsi con le importanti operazioni coordinate dalla Dda, la cosca Giampà era riuscita a riorganizzarsi affiliando nuove leve all’organizzazione. S’erano strutturati secondo il modello tipico del locale di ‘ndrangheta, con tanto di bacinella e contabile dell’organizzazione». La “bacinella” è la cassa comune che viene divisa fra gli affiliati ma che serve anche a mantenere le famiglie dei detenuti ed a pagare le parcelle degli avvocati.
In carcere all’alba di ieri sono finiti Vincenzo Giampà “Camacio” di 49 anni, che viene considerato dagli inquirenti il reggente della cosca lametina, essendo detenuti tutti gli altri boss; poi Danilo Cappello detto “Kirbi” di 28 anni, Roberto Castaldo 27 anni, Gregorio Scalise di 25, Giuseppe Paone di 23, Pasquale Mercuri di 28, Francesca Allegro e Francesco Morello di 32 anni, e Marco Francesco De Vito di 43. Arresti domiciliari per altri due giovani: Vincenzo Vigliaturo e Andrea Mancuso di 26 e 25 anni. Molti di loro sono imparentati con i mafiosi in galera.
Le “nuove leve” sono accusate, a vario titolo, di associazione mafiosa e numerose estorsioni contro commercianti e imprenditori di Lamezia anche attraverso atti intimidatori: bottigliette incendiarie davanti alle saracinesche dei negozi o nei cantieri, anche con bombe.
Il lavoro d’intelligence della Squadra mobile e del commissariato di polizia lametino ha dimostrato che il clan Giampà non è stato perso di vista dagli investigatori nemmeno dopo le condanne in appello nelle operazioni “Medusa” e “Perseo” tra il 2012 e l’anno successivo. Che hanno portato al pentimento di una ventina di imputati, tra i quali Giuseppe Giampà, il giovane boss figlio di Francesco “Il Professore” che da anni sta scontando l’ergastolo in un carcere del Nord.
Questa squadra di ventenni finita in galera agiva come chi è finito in carcere. Ma qualcosa non ha funzionato, perchè adesso sono tutti sorvegliati con le intercettazioni audio e video, anche se il clima nella città è sempre lo stesso, gli imprenditori non spiccicano una parola. Subiscono muti.
Per Giovanni Bombardieri, viceprocuratore della Dda, «a Lamezia non tutto è finito nonostante gli arresti e le condanne». Ed ha sottolineato l’importanza del 41bis, il carcere duro per i mafiosi, altrimenti loro trovano sempre il sistema per contattare l’esterno e dare ordini.
Nino De Santis che dirige la Mobile catanzarese ha parlato dei conflitti interni della cosca causati dalla “bacinella” che non veniva suddivisa equamente nella comunità mafiosa. Intorno al 2010 era nato un dissidio tra Giuseppe Giampà e lo zio Vincenzo Bonaddio, di fatto mai risolto. Tanto che il giovane boss per sondare il terreno e capire da chi prendeva il pizzo suo zio, mandava i picciotti a intimidire alcuni commercianti che poi si lamentavano perchè già paganti. Ma una frangia diversa del clan. Una lotta interna raccontata da Angelo Torcasio nel 2011, pentito della prima ora. Che descrive con scene pirandelliane il commerciante di turno che va a protestare perchè costretto a pagare un doppio pizzo.
Oltre alla connessioni tra i detenuti in carcere ed i reduci del clan rimasti fuori, De Santis sottolinea che la galera «rischia di diventare una scuola di arruolamento nei clan ed una fucina di progetti criminali».
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