Trent’anni di carcere. Francesco Fortuna, 37 anni di Sant’Onofrio, è stato ritenuto responsabile dell’omicidio di Domenico Di Leo (detto Micu ’i Catalanu) assassinato nella notte tra l’11 e il 12 luglio del 2004. Il pubblico ministero Camillo Falvo aveva chiesto invece, la condanna all’ergastolo. Il verdetto è stato emesso nella mattinata di ieri dal giudice delle indagini preliminari Antonio Battaglia dopo una camera di consiglio andata avanti per circa due ore. La difesa, prima con l’avvocato Sergio Rotundo e ieri mattina con l’avvocato Saltatore Staiano, aveva cercato di mettere in dubbio la prova del Dna. Ma a convincere il giudice della piena responsabilità dell’imputato non sono state solo le risultanze delle prove scientifiche, ma probabilmente pure le rivelazioni del pentito Andrea Mantella, che ha raccontato nei minimi particolari l’esecuzione di Domenico Di Leo avvenuta a colpi di kalashnikov e di fucile, armi che imbracciavano rispettivamente – secondo il racconto del collaboratore di giustizia – Francesco Fortuna e Francesco Scrugli (a sua volta ammazzato a distanza di qualche anno in un agguato a Vibo Marina nell’ambito della guerra di mafia che ha visto contrapposti i Patania di Stefanaconi ed il gruppo dei cosiddetti Piscopisani).
A supportare i due killer pure Andrea Mantella, alla guida dell’auto e armato anche lui di pistola. Il pentito ha rivelato che prima dell’agguato, teso nei pressi della casa della vittima, alla periferia di Sant’Onofrio, è stato tagliato il lucchetto di un cancello di una vecchia casa e il commando si era rifugiato all’interno. Ad allertare il gruppo di fuoco, sulla base di quanto rivelato dallo stesso collaboratore di giustizia, che Domenico Di Leo stava arrivando è stato il rumore della sua autovettura: «Praticamente la Microcar era inconfondibile – ha ricordato lo stesso Mantella – perché faceva un rumore come un trattore...». A bloccare la sua corsa sono stati Francesco Fortuna armato di kalashnikov e Francesco Scrugli con il fucile, che avrebbero iniziato a fare fuoco a volontà contro la piccola auto fino a farla impattare contro le abitazioni di via Tre Croci, per poi avvicinarsi e finire la vittima della stessa all’interno dell’auto.
La ricostruzione fornita da Mantella, alla luce della sentenza di condanna assume, insieme alla prova del Dna su un guanto di lattice rinvenuto all’interno dell’auto abbandonata dai killer in località Vaccarizzo dopo l’agguato, una prova fondamentale al punto da avere indotto il gup ad inchiodare alle proprie responsabilità l’imputato.
Non era la prima volta che Francesco Fortuna, sulla base di quanto emerge nell’ambito delle indagini della Distrettuale antimafia di Catanzaro prendeva parte a missioni di fuoco per conto del gruppo Bonavota di Sant’Onofrio. La sua arma preferita era il kalashnikov; secondo il pentito Mantella era un’arma «che solo lui sapeva usare benissimo». In precedenza secondo gli inquirenti analoga azione criminale l’avrebbe messa in atto nei confronti di Raffaele Cracolici (detto Lele Palermo) il boss di Maierato entrato in rotta di collisione con il gruppo dei Bonavota per via della gestione dell’area industriale di Maierato.
Francesco Fortuna è considerato dagli inquirenti il braccio armato della cosca Bonavota. Il killer fidato del clan che entrava in azione ogni qualvolta la posta in gioco era importante. Il kalashnikov era la sua arma preferita e per questo motivo, secondo quanto sostengono gli inquirenti, la stessa arma l’avrebbe usata pure quando i Bonavota hanno sentenziato la condanna a morte di Raffaele Cracolici (noto come Lele Palermo) capobastone di Maierato trucidato a raffiche di mitra e colpi di fucile il 4 maggio del 2004 e otto giorni più tardi la stessa sorte è toccata a Domenico Di Leo, pure lui ucciso dai colpi di kalashnikov e fucile. L’omicidio di quest’ultimo sarebbe inoltre da inquadrare nelle forti frizioni che si erano venute a determinare nell’ambito dello stesso gruppo dei Bonavota, di cui la stessa vittima avrebbe fatto parte diventando con il tempo una pedina piuttosto scomoda.