I beni confiscati alla mafia dovevano servire per sviluppare al loro interno il “Progetto Limbadi” realizzando un ponte virtuale capace di promuovere da Nord a Sud, ma anche oltre i confini nazionali, la pedagogia dell’antimafia e dell’innovazione sociale.
Un progetto ambizioso da far decollare nelle ville sottratte alla ’ndrangheta con l’obiettivo di formare i giovani coniugando cultura e lavoro; una sfida senza precedenti da portare avanti nell’intento prima di arginare e poi debellare tutte le forme di condizionamento che limitavano e limitano le libertà di un territorio che, nonostante tutto, ha una sua rete economica non priva di eccellenze. Nell’iniziativa ci credevano in tanti. Non a caso, nel novembre del 2016, l’associazione “Riferimenti” sottoscriveva protocolli di cooperazione culturale che sancivano il coinvolgimento di Unical, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Fondazione Caponnetto, Confapi, Fondazione Ambrosoli di Milano.
Ci credeva anche lo Stato che, almeno inizialmente, non lesinava risorse dando forza al progressivo convincimento che a Limbadi si stesse davvero scrivendo una pagina nuova e diversa della lotta alla criminalità organizzata.
Oggi che di quel castello sembra debbano rimanere solo le ceneri la delusione è tanta. La gente preferisce non manifestare apertamente la propria opinione, i giovani si trincerano dietro un «si sapeva che sarebbe finito così», mentre chi, in tempi non sospetti, sosteneva che era meglio che i beni confiscati venissero utilizzati per realizzare caserma e alloggi per i militari ora si trincera in un silenzio carico di amarezza.
Sugli immobili confiscati al clan Mancuso sono stati investiti tre milioni di euro, ora all’interno potrebbe nascere il circolo per appassionati di briscola.
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