A cinque anni di distanza dalla decisione del magistrato Pietro D’Amico, 62 anni di Vibo, di ricorrere a una morte assistita in una clinica di Basilea (Svizzera) per chiudere uno dei capitoli più importanti della sua esistenza terrena, la Procura di Pesaro va avanti con le indagini che vede indagati due medici per concorso in omicidio colposo. Secondo l’accusa avrebbero determinato o consentito, per negligenza, il suicidio assistito del magistrato il quale, più volte, aveva tentato di mettere un punto alla sua vita non riuscendo però a superare le resistenze dei familiari.
Uomo dall’acuta intelligenza e grande affabulatore Pietro D’Amico in tutti i modi aveva cercato di ottenere l’autorizzazione per il suicidio assistito, avvenuto poi l’11 aprile del 2013. Nella clinica di Basilea si presentò con due certificati medici, uno del dott. Antonio Lamorgese, di Fano e l’altro della dottoressa Elisabetta Pontiggia di Pavia (per la terapia farmacologica) che prospettavano un decorso nefasto. A distanza di alcuni mesi dal decesso l’autopsia accertò però che D’Amico non era affetto da alcuna grave patologia, confermando quindi quello che i familiari del magistrato dalla prima ora sostenevano.
E alle accuse ipotizzate nei suoi confronti ha ribattuto il dott. Lamorgese, peraltro amico del magistrato vibonese, ripetendo quello che aveva già avuto modo di dire cinque anni fa. In pratica D’Amico gli chiese un certificato motivando tale richiesta ai fini di un prepensionamento, omettendo però di dire che in pensione era già andato. Il dott. Lamorgese (assistito dall’avv. Gianluca Sposito) ha anche ribadito di non avere mai scritto un referto pilotato per D’Amico : «Ho parlato di una grave malattia neurovegetativa dopo aver consultato risultati di esami che mi aveva sottoposto dopo mia insistenza. Esami che poi D’Amico si riprese ma in cui nulla di irreversibile trapelava».
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