I giudici non credono alla versione di Vincenzo Iaquinta sulla mancata custodia di due pistole e di alcune munizioni, lasciate nella disponibilità del padre Giuseppe che non poteva averle perché colpito da uno specifico divieto prefettizia. E per questo lo hanno condannato a due anni. Ma, allo stesso tempo, il tribunale di Reggio Emilia sottolinea l’estraneità del campione del Mondo all’associazione 'ndranghetista di cui invece il genitore Giuseppe, è considerato figura strategica. È breve, ma chiaro, il passaggio dedicato all’ex calciatore nelle 3.200 pagine scritte per motivare la sentenza 'Aemilia', 118 condanne per 1.200 anni di carcere complessivi inflitti al termine di uno dei più grandi processi sulla criminalità organizzata infiltrata al Nord Italia. «L'estraneità di Vincenzo Iaquinta all’associazione mafiosa e lo strettissimo rapporto personale con il padre - si legge - lasciano persistere il ragionevole dubbio che egli non abbia agito nel perseguimento della finalità tipica contestata (cioè l’aggravante di aver agevolato l’associazione mafiosa, che gli contestava la Dda, ndr) bensì al solo scopo di aiutare il padre». Il 31 ottobre, mentre i giudici stavano ancora leggendo il dispositivo sul padre, condannato a 19 anni, i familiari uscirono indignati dall’aula di giustizia: «Vergogna, ridicoli», gridarono. «Il nome 'ndrangheta non sappiamo neanche cosa sia nella nostra famiglia», disse l’ex calciatore. Per il collegio del tribunale, invece, il padre Giuseppe è personaggio importante nella cosca emiliana legata ai Grande Aracri di Cutro, nel Crotonese, zona di cui è originario. In particolare «grazie alla sua brillante carriera di imprenditore edile, alla sua incensuratezza, alla disponibilità di denaro e alla positiva immagine pubblica del figlio Vincenzo, noto giocatore della serie A di calcio e campione del mondo, rappresenta una delle figure maggiormente importanti, strategiche, all’interno del sodalizio criminoso», spiega la sentenza, dove si dice anche che proprio uno come Giuseppe serviva alla cosca «per elevare l'immagine del gruppo e renderla presentabile e affidabile agli occhi del mondo imprenditoriale, politico e, in generale, sociale». La nuova 'ndrangheta emersa dal processo Aemilia, d’altra parte, è proprio questo. Un gruppo, cioè, che pur restando fedele alla propria fama, a un certo punto, per conquistare nuovi spazi nell’economia emiliana, ha dovuto mettersi, sintetizzano i giudici, «l'abito nuovo». La criminalità «ha indossato - spiega - una veste prettamente imprenditoriale, grazie alla quale ha celato il suo tradizionale e rude volto, insinuandosi e mimetizzandosi subdolamente in settori criminali lontani da quelli tradizionali, ma non certo meno proficui di quelli, anzi, fortemente appetibili anche dalla cosca madre calabrese, sempre in cerca di nuove occasioni di arricchimento».