L’ondivago accusatore. Il giudice di Catanzaro Marco Petrini, dopo il clamoroso arresto, ha reso pesanti dichiarazioni nei confronti di colleghi, di avvocati, di commercialisti e medici. Al furore dichiarativo iniziale, però, nel corso dell’ennesimo interrogatorio sostenuto il 17 aprile scorso in tempo di piena pandemia in teleconferenza davanti ai pubblici ministeri di Salerno, il magistrato ha tuttavia compiuto una vera e propria acrobazia pre-processuale, ritrattando molte delle confessioni rese in precedenza nei confronti soprattutto dei colleghi togati. Ai pubblici ministeri che lo ascoltavano ha detto di aver fornito in precedenza ricostruzioni improbabili perché ritrovatosi in uno stato di particolare prostrazione psicologica. La nuova posizione assunta dall’ex presidente dell’Assise di Catanzaro ha indotto ai magistrati inquirenti a compiere ulteriori attività investigative nei suoi confronti culminate anche nella registrazione dei colloqui telefonici intrattenuti dall’indagato “eccellente” con l’ex moglie residente a Lamezia Terme. Proprio a seguito di queste indagini il procuratore aggiunto di Salerno, Luca Masini e il pm Vincenzo Senatore ne hanno richiesto il trasferimento in carcere mediante l’adozione di un nuovo ordinanza di custodia cautelare. Petrini, infatti, dopo l’inizio dell’attività collaborativa era stato assegnato agli arresti domiciliari in una struttura religiosa, prima campana e successivamente calabrese. E qui viene il bello, o il brutto, a seconda dei punti di vista. Il 9 giugno scorso il gip di Salerno, Pietro Indinnimeo, ha respinto la richiesta formulata dalla Procura campana, firmando un provvedimento di rigetto che merita di essere approfondito per via delle considerazioni fatte dal magistrato sul giudice corrotto e sulla sua «attendibilità» dopo le giravolte compiute in fase di indagini preliminari. Scrive Indinnimeo: «Petrini, approfittando di indiscutibili e utili dati documentali, ricostruisce false chiamate in correità per dimostrare di essere pronto a “togliere il velo” su sistematiche attività di corruzione in atti giudiziari poi rivelatesi inesistenti, allo scopo evidente di ottenere una rimodulazione della risposta cautelare. Petrini» aggiunge il Gip campano «non corrisponde al profilo del soggetto che tende a sporgere sistematicamente querela denunciando fatti falsi ed attribuendoli falsamente a persone note (come spesso accade soprattutto con le denunce nei confronti dei magistrati da soggetti scontenti dall’esito dei loro processi che “viaggiano” lungo tutto l’asse territoriale disegnato dall’articolo 11 del Codice di procedura penale) ma è soggetto che, solo se compulsato dall’autorità giudiziaria su fatti riguardanti anche terzi, potrebbe rendere ulteriori dichiarazioni false, idonee a configurare altri reati di calunnia o comunque preconfezionare elementi indiziari idonei ad ingenerare confusione nella ricostruzione dei fatti». Ma Pietro Indinnimeo nella sua ordinanza di rigetto della richiesta di arresto del giudice corrotto si spinge ancora oltre, “bacchetando” anche i magistrati inquirenti. Leggere per credere: «Allo stato, per il Petrini l’unica possibilità di inquinamento probatorio e di reiterazione del delitto di calunnia è collegato alla scelta della polizia giudiziaria e del pubblico ministero di continuare a interrogarlo nonostante la presa d’atto della sua sostanziale inattendibilità intrinseca. Da qui la scelta di non procedere a nuovi interrogatori in chiave investigativa proprio tenuto conto del suo contegno, esclude in nuce entrambi i rischi - inquinamento probatorio e reiterazione del delitto - paventati nella domanda cautelare che, di conseguenza, non può essere accolta». Insomma, per il Gip, Marco Petrini non dovrebbe essere più interrogato vista la capacità di addomesticare le versioni dei vari fatti a proprio piacimento. Il togato, tuttora sottoposto a obblighi cautelari, ha accusato gli avvocati Marcello Manna e Luigi Gullo del foro di Cosenza, di averlo pagato in cambio dell’assoluzione del boss rendese Francesco Patitucci dall’imputazione di concorso nell’omicidio di Luca Bruni, “reggente” dell’omonima cosca di Cosenza. Il delitto venne compiuto nel gennaio del 2012 alla periferia di Rende. Riguardo all’ipotizzato contesto corruttivo il magistrato aveva pure tirato in ballo un suo collega originario di Castrovillari rispetto al quale, tuttavia, ha successivamente ritirato ogni accusa. Cosa che non ha fatto nei riguardi dei legali cosentini Manna e Gullo.