Parlavano delle loro strategie, e in particolare del progetto finalizzato ad accaparrarsi la distribuzione dei farmaci in tutta la provincia di Catanzaro, i membri dello stato maggiore del clan riuniti nella tavernetta di pertinenza della casa del loro capo, Nicolino Grande Aracri, a Cutro. Non sapevano che il locale era disseminato di microspie installate dai carabinieri. Era il 7 giugno del 2014. È in quella circostanza, come si legge negli atti, che emerge per la prima volta il ruolo di Domenico Tallini, il presidente del Consiglio regionale della Calabria, allora assessore regionale, arrestato stamane su richiesta della Dda di Catanzaro nell’ambito dell’operazione «FarmaBusiness». Il progetto al centro dell’inchiesta era in fase embrionale e mancavano le necessarie autorizzazioni amministrative. I partecipanti evidenzia la necessità di far agire il nascente consorzio nella massima legalità. Le microspie capitarono l’espressione «dobbiamo fare una cosa il più pulita possibile». Il gruppo di preoccupa di coinvolgere nell’operazione professionisti al di sopra di ogni sospetto, di valutare con accuratezza gli assetti economici e finanziari e, soprattutto, di ottenere le necessarie autorizzazioni da parte della Regione. Uno dei partecipanti al summit, Leonardo Villirillo, parla al riguardo dell’interessamento «dell’assessore» ovvero, secondo gli investigatori dell’Arma, Domenico Tallini. Quest’ultimo, come sarebbe emerso dal summit, si sarebbe occupato dell’iter burocratico e di «risolvere eventuali altre problematiche». «L'assessore», inoltre, secondo i partecipanti alla riunione, sarebbe potuto risultare utile anche per altre necessità del clan. Tallini, secondo quanto detto nel corso della riunione, aveva già individuato 4 farmacie disponibili ad approvvigionarsi dei farmaci occorrenti dal costituendo consorzio. Con questo sistema il clan stimava di poter incassare centinaia di milioni di euro all’anno. Al vertice della cosca Grande Aracri c'erano le donne. Si tratta della moglie e della figlia del boss Nicolino Grande Aracri, Giuseppina Mauro ed Elisabetta Grande Aracri (finite in carcere), ma anche della consorte di Ernesto Grande Aracri, Serafina Brugnano (indagata), che avrebbero avuto il pieno controllo del potente clan di Cutro durante il periodo di detenzione dei rispettivi mariti. Tre donne capaci di «rappresentare e restituire le figure apicali dell’organizzazione, provvedendo a dare disposizioni e direttive agli associati nella pianificazione delle attività illecite, anche in ragione delle indicazioni provenienti dai congiunti detenuti». Secondo gli inquirenti, le tre donne «provvedono a gestire gli introiti della consorteria mediante la materiale ricezione di danaro da parte delle figure imprenditoriali di riferimento della cosca, quali i cugini Gaetano Le Rose e Giuseppe Ciampà». Sarebbero state proprio loro a intervenire «nei confronti degli altri sodali al fine di eludere le investigazioni, allorquando le stesse si indirizzano all’apprensione di armi costituenti il potenziale militare della consorteria».