Non sempre il tempo sana le ferite, perché alcune sono così profonde da grondare sangue anche a distanza di distanza di decenni. Soprattutto quando è la sete di vendetta a covare nella mente e nell’animo. In questo caso accade che una delle regole non scritte del cosiddetto “codice d’onore” della ’ndrangheta – «solo il sangue lava il sangue» – possa diventare una costante nella vita. Lo è stato senz’altro per il collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena il quale – fino alla decisione di voltare pagina – ha avuto praticamente un chiodo fisso: vendicare l’omicidio del padre Antonio Arena, figura apicale della ’ndrangheta vibonese tra gli anni 70 e 80, vittima il 3 gennaio del 1985 della lupara bianca. E lo avrebbe fatto anche imbottendosi di esplosivo e trasformandosi in un kamikaze. Il corpo del vecchio capobastone - fedelissimo del boss Francesco Fortuna, detto Ciccio Pomodoro (assassinato a distanza di poco più di un anno), non è mai stato ritrovato, ma il figlio Bartolomeo, attraverso il tam-tam degli ambienti criminali, è riuscito a sapere come sarebbero andate le cose. E per la morte del padre – che denifinisce «caduto in una “tragedia”», ovvero in una trappola – Bartolomeo Arena avrebbe voluto servire un salatissimo conto all’uomo che riteneva (e ritiene) responsabile del tutto, ovvero il boss Giuseppe Mancuso (alias Peppe ’Mbrogghia) di Limbadi, il quale avrebbe evitato di ritrovarsi obiettivo di un agguato soltanto a causa della sua mancata scarcerazione. Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Catanzaro