È «l’antefatto» che ha preceduto, di qualche anno, il brutale omicidio dell’avvocato Francesco Pagliuso, un delitto che ha segnato la comunità lametina e che resterà per sempre una delle pagine più buie del territorio, avendo la vittima pagato con la vita solo l’aver svolto con successo la sua attività professionale. L’episodio che ha preceduto il delitto è noto e il gup Pietro Carè lo cristallizza nelle pagine che contengono le motivazioni della sentenza che ha portato alla condanna all’ergastolo, in abbreviato, di Pino e Luciano Scalise quali mandanti dell’assassinio dell’avvocato.
Il famigerato «episodio del bosco» è rivelatore, secondo il giudice, di «quell’avversione nei confronti del noto penalista sulla quale si strutturerà, dopo la morte di Daniele Scalise ed il successo professionale nella difesa di Domenico e Giovanni Mezzatesta nel processo per gli omicidi Vescio-Iannazzo, il movente vendicativo alla base del mandato omicidiario conferito dai vertici della cosca Scalise al killer Marco Gallo (già condannato all’ergastolo in primo grado, ndr)».
La fonte di prova principale a carico degli Scalise – ma non l’unica – è il racconto del sequestro di persona subìto che lo stesso Pagliuso ha fatto alla sorella, ai collaboratori di studio e ai colleghi della Camera penale: è stato incappucciato e portato da Pino Scalise in un bosco del Reventino a incontrare il figlio Daniele, all’epoca latitante, dove è stato malmenato e trascinato davanti a una buca nella quale «veniva minacciato di essere gettato, una volta ucciso, perché il suo corpo non fosse più ritrovato».
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