In una città in cui si spara e si dimentica con la medesima facilità, le parole di Rocco Mangiardi dovrebbero far rumore. Non certo perché sia avvezzo ad alzare la voce o a cercare visibilità, ma per quello che dice. La sua vita è blindata da oltre un decennio, da quando ha denunciato chi pretendeva che pagasse il pizzo per lavorare in tranquillità. E in questi anni non solo non ha mai chiesto niente per sé, ma non ha mai parlato pubblicamente della sua situazione personale. Fino all’altro ieri. Quando, in occasione della presentazione di una proposta di legge di sostegno alle vittime di mafia, si è lasciato andare a uno sfogo molto amaro. Ricordando l’esempio di Pietro Ivano Nava – trovatosi per caso sul luogo dell’agguato al giudice Rosario Livatino, denunciò subito quello che aveva visto – e definendolo «l’unico testimone di giustizia puro», Mangiardi ha spiegato di aver denunciato per difendere la sua attività imprenditoriale. «All’epoca – ha osservato – le cose per la mia azienda andavano bene. Poi però le cose sono andate meno bene, ma non mi sono mai lamentato per dignità. Non ho mai chiesto niente a nessuno, ma lo Stato non c'è stato. Passato il clamore, un testimone resta solo con i suoi familiari». Le ricorrenze di questi giorni «fanno riflettere», perché «dopo anni pochi passi sono stati fatti». Ai ragazzi «insegniamo solo le date ma non riusciamo a dare l’esempio in prima persona».
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