Da un lato ci sono «elementi di prova inconfutabili» che hanno dimostrato l’«intraneità» di don Edoardo Scordio alla cosca Arena di Isola Capo Rizzuto. Dall’altro, l’apporto «funzionale agli interessi» del clan fornito dal religioso, al fine di predisporre «metodologie fraudolente» mediante le quali la ‘ndrina isolitana è riuscita «ad esercitare il controllo sulla gestione del Centro d’accoglienza di Sant’Anna». Anche la Corte d’Appello di Catanzaro, al termine del processo di secondo grado di rito ordinario scaturito dall’inchiesta “Jonny” della Dda conclusosi lo scorso 12 aprile con 13 condanne e 7 assoluzioni, ha confermato l’accusa di associazione ’ndranghetistica nei confronti dell’ex parroco della chiesa Maria Assunta e fondatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto. Ma, nonostante ciò, per don Scordio è scattata la riduzione di pena da 14 anni e 6 mesi a 8 anni e 8 mesi di carcere perché si sono prescritte le contestazioni di malversazione che gravavano a suo carico, oltre che per la concessione delle attenuanti generiche da parte dei giudici: età avanzata, ha 75 anni, e la dedizione alle attività religiose. «L’imputato – scrive il collegio presieduto da Fabrizio Cosentino nelle motivazioni della sentenza – agiva in un contesto strutturato e diretto dagli esponenti della cosca Arena nel proseguimento del comune obiettivo di arricchimento personale e della cosca, avvalendosi delle risorse organizzative, umane, materiali apprestate dal sodalizio per condurre l’attività criminosa».
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