L’alleanza tra i clan di ‘ndrangheta che nel Vibonese non volevano piegarsi ai Mancuso ha un peso notevole nella ricostruzione dei fatti che viene approfondita dalla presidente del Tribunale collegiale di Vibo, Tiziana Macrì, nelle oltre 400 pagine della sentenza del processo con rito ordinario scaturito dall’inchiesta “Rimpiazzo”. Le motivazioni per cui i giudici hanno comminato oltre due secoli di carcere a diversi presunti componenti del clan dei Piscopisani si soffermano, infatti, più volte sul cartello di cosche antagonista al clan di Limbadi di cui faceva parte proprio il “nuovo” locale della frazione alle porte di Vibo. La sentenza è storica anche per questo: certifica l’esistenza di un nuovo gruppo di ‘ndrangheta a Piscopio e cristallizza anche le alleanze ricostruite dalla Dda di Catanzaro nell’inchiesta che, non a caso, prende il nome dal “rimpiazzo” che i Piscopisani avrebbero voluto realizzare su Vibo proprio a danno dei Mancuso. All’epoca dei fatti, che partono dalla prima decade del nuovo millennio, a comandare azioni e strategie del clan egemone con feudo a Limbadi è Pantaleone “Scarpuni”, alla guida di un «colosso» in cui un ruolo di primo piano lo hanno le famiglie Fiarè-Razionale-Gasparro di San Gregorio d’Ippona. Dall’altra parte ci sono il gruppo autonomista di Andrea Mantella su Vibo, i Bonavota a Sant’Onofrio, gli Emanuele nelle Preserre e, appunto, i “ragazzi” di Piscopio. Mantella ha raccontato così in Aula l’aria che si respirava: «Praticamente c'era una sorta di pandemia. Erano tutti chiusi dentro, i delinquenti, i criminali, i mafiosi, gli ‘ndranghetisti di Vibo Valentia, erano tutti chiusi dentro perché fuori c'era Pantaleone Mancuso, alias Scarpuni, che li aveva terrorizzati. Era una sorta di pandemia quella che abbiamo vissuto qualche anno fa». Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Catanzaro