Si tratta di due episodi per cui la Dda di Catanzaro, nell’ambito dell’inchiesta “Olimpo” contro i clan del Tirreno vibonese, non ha chiesto l’applicazione di misure cautelari, dunque il gip non ne fa menzione dell’ordinanza di custodia che ha coinvolto 56 persone (78 in totale gli indagati). Lo stesso giudice (Chiara Esposito) specifica però che la richiesta di misura vergata dai pm antimafia Andrea Buzzelli, Andrea Mancuso e Antonio De Bernardo si intende «integralmente richiamata e trascritta» per «completezza argomentativa». E proprio tra le oltre 4mila pagine della richiesta si parla delle «interazioni» che il clan La Rosa di Tropea avrebbe alimentato «con soggetti addentro al tessuto istituzionale, impiegati in delicati settori dell'apparato politico-amministrativo». Tali sono il Tribunale e la Prefettura di Vibo, due pilastri dello Stato sul territorio in cui però, stando a quanto emerge dalla recente inchiesta, la cosca avrebbe in qualche modo allungato i suoi tentacoli. Il primo episodio riguarda un impiegato del palazzo di Giustizia vibonese, non indagato, che si sarebbe rivolto al presunto boss per risolvere una questione che turbava la sua famiglia. Il dipendente del Ministero della Giustizia, che all’epoca dei fatti (qualche anno fa) svolgeva mansioni in un importante ufficio del Tribunale, avrebbe ricevuto pressanti richieste di denaro da due giovani che dicevano di vantare un credito nei confronti di un suo congiunto. Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Calabria