Le pene sono diventate definitive lo scorso 3 aprile, ora la Cassazione ha depositato anche le motivazioni per cui ha rigettato i ricorsi dei quattro imputati condannati nel processo scaturito dall’inchiesta che, attraverso le denunce di Pietro Di Costa, ha fatto emergere le ingerenze dei clan vibonesi nel settore degli istituti di vigilanza. La Suprema Corte sostanzialmente ha confermato in pieno l’attendibilità del testimone di giustizia di Tropea ritenendo «coerente e credibile» il quadro da lui tratteggiato nel corso del processo. A giugno del 2022 la Corte d’Appello di Catanzaro ha condannato Paolo Potenzoni a 4 anni di reclusione, Stefano Mercadante (poliziotto all’epoca in servizio a Vibo) a 3 anni e 10 mesi, Michele Purita e Carmelo Barba a 5 anni ciascuno. La Cassazione rileva come sia il Tribunale che la Corte d’Appello siano giunti alla «non illogica conclusione della rappresentazione della parte di Di Costa di un quadro coerente e credibile, connotato dal decisivo intervento di Mercadante, volto a convincere il predetto a ritirare la denuncia presentata contro Purita». Di Costa, rappresentato in Cassazione dall’avvocato Filippo Morlacchini, aveva aperto a Tropea un istituto di vigilanza, attività analoga a quella che svolgeva Purita, così quest’ultimo assieme a Barba secondo l’accusa avrebbe fatto leva sulla presunta vicinanza ai clan di Vibo per costringere l’imprenditore a non fargli concorrenza. Mentre Mercadante secondo l’accusa avrebbe ricevuto denaro da Purita per evitare controlli sul suo istituto di vigilanza e avrebbe indotto Di Costa a rimettere una querela che aveva sporto nei suoi confronti. Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Catanzaro