Un percorso durato quasi 15 anni e tutt’altro che semplice. «Mi hanno massacrato, in questi anni sono stato discriminato e allontanato perché ho denunciato, è stato parecchio difficile dal punto di vista personale, per me e per la mia famiglia». Pietro Di Costa non nasconde di aver passato momenti bui e ammette che anche oggi per lui la quotidianità non sia certo rose e fiori, ma è anche comprensibilmente soddisfatto di quanto ha messo nero su bianco la Cassazione. La testimonianza che ha reso nel processo sulle ingerenze dei clan vibonesi nel settore degli istituti di vigilanza è stata ritenuta pienamente attendibile dalla Suprema Corte. E ora che le condanne per i quattro imputati sono diventate definitive l’imprenditore di Tropea vuole anche lanciare il suo personale appello a quanti soccombono di fronte alla protervia della ‘ndrangheta.
«Dal 2009 – spiega Di Costa – ho collaborato con la Dda di Catanzaro e con altre Procure e dopo tutti questi anni siamo arrivati alle conclusioni sancite dalla Cassazione. Ora vorrei dire a tutte le persone che sono massacrate dalla criminalità organizzata e hanno paura di denunciare che io le capisco, ci credo che abbiano timore perché tante volte siamo abbandonati da una parte di Stato. Però ci sono uomini e donne delle istituzioni che fanno il proprio dovere sacrificandosi e rischiando anche la vita».
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