L’«attendibilità» e la «credibilità» dei collaboratori di giustizia, insieme ai riscontri, «hanno consentito di ricostruire genesi, preparazione, organizzazione ed esecuzione dell'omicidio Aloisio, assegnandone con precisione ruoli e contributi concausali per ciascuno degli imputati». Ecco spiegato perché la Corte d'Assise d'Appello di Milano lo scorso 1 giugno, ribaltando il primo grado di giudizio, ha condannato all'ergastolo le 5 persone, tra esecutori e mandanti, accusate dell’assassinio del 34enne cirotano Cataldo Aloisio, freddato il 26 settembre 2008 con un colpo di pistola alla nuca e lasciato cadavere davanti al cimitero di San Giorgio sul Legnano (Varese). Il carcere a vita è stato inflitto a Silvio Farao (75 anni) e Cataldo Marincola (62), ritenuti ai vertici della cosca Farao-Marincola di Cirò, a Francesco Cicino (53) e a Vincenzo Farao (51), tutti assolti il 23 novembre 2021 dalla Corte d'Assise di Busto Arsizio; per Vincenzo Rispoli (61), il presunto killer e referente del clan a Lonate Pozzolo, è stata confermata la pena massima. «Il contesto criminale in cui il delitto sarebbe maturato - scrive il collegio presieduto da Ivana nelle motivazioni della sentenza - non è soltanto quello della "famiglia" nella sua accezione mafiosa e della "appartenenza di cosca" ma anche quello della famiglia naturale intesa come cerchia parentale, di affinità e consanguineità». Infatti, Aloisio era il genero di Giuseppe Farao, il 76enne boss del "locale" di Cirò, e la sua morte venne decretata per mantenere intatti gli equilibri interni al clan. Non a caso nel 2018 il pentito Francesco Farao raccontò agli inquirenti che il fratello Vincenzo gli aveva riferito che Aloisio «era divenuto una spina nel fianco» per due ragioni: in passato aveva «assunto autonome iniziative non debitamente comunicate ai membri del "locale" e suscettibili di spezzare equilibri»; e per l'essere diventato «ancora più audace ed incontrollabile» dopo l'uccisione dello zio Vincenzo Pirillo (assassinato il 5 agosto 2007 a Cirò Marina) in quanto addebitava la sua "eliminazione" ai capi della cosca «minacciando di "toccarli"». Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Catanzaro