Omicidio Bucchino a Lamezia Terme, la decisione della Cassazione: nuovo processo d'appello per Daponte
La Corte di Cassazione, sezione prima, ha deciso di annullare la condanna a 30 anni di reclusione emessa il 27 ottobre 2022 dalla Corte d'Assise d'Appello di Catanzaro, presieduta da Caterina Capitò, nei confronti di Peppino Daponte, 62 anni residente a Lamezia, accusato dell'omicidio aggravato di Pietro Bucchino, un giovane di 32 anni, che è stato colpito da cinque spari di pistola calibro 38 nella notte del 10 novembre 2003 a Savutano, una frazione di Sambiase nel Comune di Lamezia Terme. I giudici avevano confermato la decisione del giudice per l'udienza preliminare Filippo Aragona. La Cassazione ha quindi accolto le argomentazioni degli avvocati difensori Salvatore Staiano, Vincenzo Cicino e Renzo Andricciola, riaprendo così un caso giudiziario che sembrava ormai concluso, in base alle sentenze di primo e secondo grado, e in cui erano state coinvolte molte parti civili rappresentate da diversi avvocati. Per Peppino Daponte è previsto un nuovo processo d'appello a Catanzaro. L’omicidio era rimasto impunito fino alla svolta avvenuta nel giugno del 2018, a oltre 15 anni di distanza dal delitto, quando la Procura antimafia del capoluogo ha formulato l’accusa di omicidio aggravato dalle modalità mafiose nei confronti del 62enne lametino all’epoca già in carcere perché coinvolto nell’operazione “Andromeda”. Bucchino fu ucciso la notte del 10 ottobre 2003 in contrada Cerasolo, nel quartiere Sambiase, quando aveva 32 anni. Secondo l’indagine condotta dal pm Elio Romano si trattò di un omicidio di stampo mafioso maturato nel quadro di una strategia criminale della cosca confederata Iannazzo-Cannizzaro-Daponte che perseguiva lo scopo di mantenere «l'incontrastato controllo del territorio sambiasino». Peppino Daponte, secondo l’impianto accusatorio confermato dalla sentenza di primo grado, in concorso con altre persone allo stato non identificate avrebbe esploso una raffica di colpi di pistola all'indirizzo del 32enne, alcuni dei quali lo hanno raggiunto in parti vitali del corpo senza lasciargli scampo. Tra le fonti che hanno contribuito alla svolta investigativa ci sono le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Gennaro Pulice e Matteo Vescio. La vittima avrebbe agito in maniera autonoma compiendo alcuni furti nel quartiere lametino che era invece il fortino del clan Iannazzo-Cannizzaro-Daponte. Per questo motivo la cosca avrebbe decretato ed eseguito la sua condanna a morte.