Al centro della vicenda, confluita nel maxiprocesso “Rinascita Scott”, c’è un immobile da destinare a esercizi commerciali sito su corso Vittorio Emanuele III e già in precedenza affittato a una società (poi fallita) dei fratelli Umberto Maurizio e Mario Artusa. Entrambi sono stati condannati in promo grado per questo e altri capi d’imputazione a pene di 18 (Umberto, a fronte dei 26 chiesti dalla Dda di Catanzaro) e 21 anni (Mario, per il quale ne erano stati chiesti 29). Assieme ai due imprenditori sono stati condannati per questa vicenda, che per i giudici si configura come tentata estorsione aggravata, il gioielliere Vittorio Tedeschi (2 anni e 8 mesi a fronte di una richiesta di 5 anni e 4 mesi), nonché - anche per diversi altri capi d’accusa - Gianfranco Ferrante (20 anni e 2 mesi a fronte dei 26 chiesti) ed Emanuele La Malfa (17 anni e 6 mesi, chiesti 22 anni), ritenuti «sodali» del clan Mancuso di Limbadi. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado si ricorda che i due fratelli Artusa stavano cercando di riottenere la disponibilità dell’immobile e, per riuscire nel loro intento, in concorso con Ferrante, La Malfa e Tedeschi, «facevano pressioni» su colui che all’epoca era l’amministratore dei beni di una famiglia nobiliare di Vibo proprietaria dell’edificio. Siamo nel maggio del 2015: gli Artusa, con l’aiuto di Ferrante e La Malfa, avrebbero avvicinato il gioielliere, definito «amico di Luigi Mancuso» e conoscente dell’amministratore dei beni della famiglia nobiliare, «affinché convincesse quest’ultimo a locare nuovamente agli Artusa l'immobile».