Da un lato c'è il «ruolo apicale» che Nicolino Sarcone ha «rivestito» all'interno della cosca Grande Aracri di Cutro alla luce anche delle «recenti condanne» che gli sono state inflitte. Dall'altro «la persistente operatività» del clan «di appartenenza» ed «i rapporti mantenuti, indirettamente, con i fratelli, tutti colpiti da misura di prevenzione». Ecco spiegato perché la Cassazione ha confermato il carcere duro per il 59enne di Cutro finito alla sbarra per essere stato il capo in Emilia del locale di ’ndrangheta capeggiato dal boss ergastolano Nicolino Grande Aracri.
La Suprema Corte ha infatti dichiarato inammissibile il ricorso presentato dai difensori di Sarcone, gli avvocati Fabio Gravagnuolo e Tania Belardi, contro l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che, lo scorso 1 febbraio, aveva prorogato il regime detentivo ristretto disciplinato dall'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario.
Il carcere duro per Sarcone era scattato in seguito al suo coinvolgimento nelle inchieste antimafia che, di volta in volta, recisero i "tentacoli" che i Grandi Aracri avevano allungato sulle rive del Po a colpi di estorsioni, traffico di droga, ingerenze nell'economia locale e infiltrazioni nella politica. Su tutte, figura l'operazione "Aemilia" che ha portato alla condanna definitiva del 59enne a 15 anni di carcere; poi ci sono i 30 anni di reclusione comminati a Sarcone nell'ambito del processo "Aemilia 92" sugli omicidi di Giuseppe Ruggiero, assassinato a Brescello il 22 ottobre del 1992, e di Nicola Vasapollo, avvenuto il 21 settembre ’92 a Reggio Emilia; a seguire, altri 2 anni e 8 mesi di detenzione irrevocabili che sono stati decisi nel giudizio nato dal blitz "Grimilde" e ulteriori 8 anni di carcere inflitti nell'appello di "Perseverance".
La Suprema Corte ha stabilito che i giudici di sorveglianza capitolini hanno applicato il «consolidato principio» secondo il quale «ai fini della proroga del regime penitenziario differenziato - è scritto nell'ordinanza degli ermellini - la sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale non deve essere dimostrata in termini di certezza, essendo necessaria e sufficiente che essa possa essere ragionevolmente ritenuta probabile» sulla base «dei dati conoscitivi acquisiti».
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