Un “forno” di Cutro era la «base logistica» dove l’emergente cosca dei Martino stoccava, confezionava e smerciava cocaina e marijuana. Invece, per le «forniture» degli stupefacenti i presunti sodali del clan utilizzavano «un linguaggio criptico e allusivo» come «macchine», «moto» o «legna» per aggirare, sebbene invano, l’attenzione delle forze dell’ordine. Mentre «la qualità» della droga veniva descritta con le espressioni «pane grattugiato» e «formaggio grattugiato».
Così avrebbe agito l’associazione di narcotrafficanti guidata dalla famiglia Martino. Ne è convinta non solamente la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ma anche la gip distrettuale, Chiara Esposito. Che, nell’ordinanza dell’operazione “Sahel” che lo scorso venerdì ha portato i carabinieri ad eseguire 31 misure cautelari, ricostruisce «l’operatività» della «struttura associativa e articolata» dei Martino «dedita» non solo alle estorsioni ma pure «al traffico di sostanze stupefacenti». «Il gruppo», scrive la giudice, si sarebbe «organizzato in modo professionale» al punto da gestire «ingenti quantitativi» di narcotici attraverso «un sistema collaudato» nell’ambito del quale «ciascun» componente avrebbe operato «con metodiche ben precise e con un proprio ruolo». E a riscontro degli elementi investigativi raccolti dagli inquirenti, ci sono le dichiarazioni rilasciate dai collaboratori di giustizia Giuseppe Liperoti e Gaetano Aloe. Liperoti, osserva la gip, durante gli interrogatori resi il 12 giugno 2017 e il 4 ottobre 2017 «ha indicato» come «soggetti» impegnati nello «spaccio» a Cutro sia Vito Martino, detenuto e già braccio destro dell'ergastolano boss Nicolino Grande Aracri, che i figli Luigi e Salvatore Martino e Salvatore Peta. Allo stesso modo il pentito Aloe, il 26 maggio 2023, ha detto ai magistrati «di aver avuto a che fare con Salvatore Martino per l’acquisto di cocaina e che proprio il gruppo dei Martino gli aveva riferito che erano soliti rifornirsi» di droga dalla cosca Mannolo di San Leonardo di Cutro.
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