Non si è trattato di un omicidio di mafia ma di un delitto consumato al culmine di un’aspra contesa tra vicini caratterizzata da odio reciproco per un terreno di campagna. E’ quanto sostiene la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro nelle motivazioni della sentenza sull'autobomba di Limbadi, nel Vibonese, che il 9 aprile 2018 ha causato il decesso del biologo Matteo Vinci, mentre il padre Francesco è rimasto gravemente ferito.
I mandanti dell’attentato, condannati all’ergastolo, per la Corte sono senza dubbio Rosaria Mancuso ed il genero Vito Barbara e ad «incastrarli» sono state le intercettazioni ambientali sui loro telefonini in cui si sono preoccupati delle indagini in corso e della preparazione di un nuovo agguato nel caso in cui Francesco Vinci fosse sopravvissuto. Per i giudici non basta tuttavia la sola parentela della Mancuso (sorella dei boss di 'ndrangheta Giuseppe, Diego, Pantaleone e Francesco) per sostenere automaticamente l’aggravante mafiosa nella contestazione di omicidio, non avendo fornito la pubblica accusa «alcuna prova in ordine all’aderenza della donna alla cosca di 'ndrangheta». Il terreno conteso non sarebbe inoltre appartenuto ai coniugi Vinci-Scarpulla (parti civili nel processo) bensì alla Mancuso e l’assenza del reato di estorsione avrebbe fatto venir meno anche l’aggravante mafiosa nell’attentato nonostante l’uso di una bomba per rivendicare il bene.
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