«Una reazione macroscopicamente sproporzionata». Così la Cassazione definisce la condotta dell’82enne Francesco Pezziniti che la notte dell’8 marzo 2019 uccise Stefano D’Arca, di 54 anni, esplodendo sette colpi da una pistola Beretta calibro 7.65 a pochi metri dal Bar Moka di Crotone. La Suprema Corte, nelle motivazioni della sentenza emessa il 23 aprile scorso, ricostruisce il delitto che si consumò in viale Regina Margherita e per il quale l’anziano è stato condannato in via definitiva a 15 anni e 7 mesi di carcere.
La vittima, poco dopo la mezzanotte, si recò nell’attività commerciale con modi aggressivi e violenti fino a prendere a calci e a pugni il bancone del locale. Ma Pezziniti, osservano gli ermellini richiamando la pronuncia della Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, in quegli attimi di tensione sparò «non uno ma plurimi colpi» contro il malcapitato, «attingendo parti vitali in un momento in cui, per giunta, gli altri soggetti intervenuti» per sedare l’alterco «erano riusciti ad allontanare» D’Arca «dall’esercizio commerciale». Con «gli altri dipendenti rimasti» che «avevano ormai chiuso le saracinesche» del bar. Discorso diverso per il 34enne Giuseppe Cortese, nipote di Pezziniti, per il quale la Cassazione ha annullato con rinvio la pena di 10 anni e 8 mesi di reclusione disponendo nei suoi confronti un nuovo processo d’appello. Il 18 maggio 2023, in secondo grado, Cortese era stato riconosciuto responsabile di concorso anomalo in omicidio poiché, per cercare di mettere fine alle «molestie» di D’Arca nel Bar Moka, si recò al vicino “Hotel Concordia”, gestito dal nonno, per prendere la calibro 7.65 carica utilizzata dall’82enne.
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