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’Ndrangheta, “gaming” ed estorsioni nel Crotonese. Pene definitive per 3 esponenti dei clan

Sentenza della Cassazione al processo Tisifone sulle nuove leve Isola, Papanice e Petilia. Ad Antonio Nicoscia inflitta la condanna più elevata: 16 anni

Esterno del Palazzo di Giustizia, sede della Corte suprema di cassazione, durante la cerimonia per l'apertura dell'anno giudiziario 2021, Roma 29 gennaio 2021. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

A sei anni dal blitz, la Cassazione ha messo la parola fine sul processo nato dall'inchiesta Tisifone della Dda di Catanzaro che disarticolò le nuove leve delle cosche di Isola Capo Rizzuto, Papanice e Petilia Policastro. La Suprema Corte, non accogliendo i ricorsi difensivi, ha reso definitivi gli anni di carcere che la Corte d'appello di Catanzaro aveva comminato lo scorso 5 marzo nell'ambito del giudizio bis di secondo grado. Invece, il primo dicembre 2022 erano diventate irrevocabili altre 15 condanne.

L'inchiesta

L’operazione, venuta alla luce il 20 dicembre 2018 con 23 fermi eseguiti dalla Squadra mobile di Crotone, sventò una «guerra di mafia» in provincia poiché i clan di Isola Capo Rizzuto erano pronti a darsi battaglia per il controllo dei traffici illeciti e, soprattutto, degli affari illegali legati all’imposizione delle slot machines nelle attività commerciali. Le indagini dimostrarono che saltata la “pax” sancita nel 2006 con gli introiti che garantiva il Centro d’accoglienza per migranti di Sant’Anna dopo gli arresti scattati nel 2017 con l’inchiesta Jonny, sorsero una serie di contrasti interni alle 'ndrine isolitane: da una parte c’erano i Capicchiano (capeggiati da Salvatore Capicchiano), dall’altro le famiglie Nicoscia-Arena-Gentile guidate da Antonio Nicoscia, affiancate dai Megna di Papanice e dal gruppo criminale di Petilia Policastro. Atti intimidatori e danneggiamenti nei confronti di imprenditori, esercenti e privati cittadini di Isola Capo Rizzuto furono concomitanti con la scarcerazione sia di Salvatore Capicchiano che di Antonio Nicoscia. Dalle investigazioni emerse che Salvatore Capicchiano, che rivelò di avere la «dote di ‘ndrangheta» della «doppia M», inferiore solo a quella di “mamma santissima”, «aveva accentrato nelle sue mani la gestione monopolistica del gaming», fino a quel momento controllato dagli Arena-Nicoscia.

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