Vibo, pressioni dei familiari sul pentito Mancuso: «Lo scopo era tutelare il potere del clan»
Le pressioni che l’allora compagna di Emanuele Mancuso, Nensy Vera Chimirri, avrebbe messo in atto nei confronti del collaboratore di giustizia, paventando la possibilità di non fargli vedere la figlia minore, per indurlo a smettere di rendere dichiarazioni all’autorità giudiziaria, non sarebbero state animate da spirito familiare ma dallo scopo di «tutelare la compagine mafiosa e garantirne la sopravvivenza». Per questo la Cassazione ha, tra le altre cose, dichiarato inammissibile il ricorso della difesa della donna confermando l’aggravante mafiosa in relazione all’accusa contestatale. Lo si legge nelle motivazioni per cui è stata annullata con rinvio la sentenza di secondo grado emessa nei confronti di Chimirri e di Francesco Paolo Pugliese, accusato di reati di armi e di favoreggiamento della latitanza di Giuseppe Salvatore Mancuso, fratello del collaboratore. In primo grado Pugliese era stato condannato a 6 anni per armi, ricettazione in concorso, favoreggiamento e procurata inosservanza di pena; Chimirri a 6 anni per violenza privata, induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e favoreggiamento in concorso. La Corte d’appello di Catanzaro ha poi riformato questa sentenza escludendo l’aggravante mafiosa per Pugliese e rideterminando la pena nei suoi confronti in 2 anni, 2 mesi e 20 giorni, mentre Chimirri è stata assolta dall’accusa di favoreggiamento e le altre accuse sono state riqualificate in tentata violenza privata con l’aggravante mafiosa, con pena di 10 mesi e 20 giorni. La sentenza di secondo grado è stata impugnata dalla Procura generale, dalla parte civile (Emanuele Mancuso) e dalle difese degli imputati e, nel settembre scorso, è arrivato l’annullamento con rinvio dalla Cassazione.