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Inchiesta sul carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro: tra i testi anche l’attuale direttrice

20050826 - CATANZARO - CRO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA REALIZZAVA ESTORSIONI DA CARCERELa Casa circondariale di Catanzarosita nel quartiere di Siano . Santi Timpani, boss mafioso affiliato al clan capeggiato da suo cognato, Luigi Sparacio, grazie a un telefono cellulare detenuto illegalmente in carcere impartiva ordini e inviava messaggi a un suo complice. FRANCO CUFARI ANSA-CD

Sarà chiamata a testimoniare anche l’attuale direttrice del carcere di Catanzaro Patrizia Delfino nel processo che vede tra gli imputati anche Angela Paravati che l’aveva preceduta alla guida del penitenziario di massima sicurezza. Ieri si è tenuta la prima udienza del processo scaturito dall’inchiesta Open Gates sui presunti illeciti nella gestione dell’istituto penitenziario Ugo Caridi. La Procura, rappresentata dalla pm Veronica Calcagno, ha depositato la sua lista testi. Oltre alla direttrice saranno chiamati in aula gli ufficiali di carabinieri e polizia penitenziaria che hanno svolto le indagini. Ma dovranno essere sentiti anche i componenti del Dap che parteciparono a una vista ispettiva nel carcere di Catanzaro nel 2022. Sul banco dei testimoni troveranno posto anche undici collaboratori di giustizia. Durante l’udienza di ieri l’avvocato Cristian Cristiano ha sollevato una eccezione di incompetenza territoriale per quanto riguarda gli episodi di spaccio di droga, chiedendo che questa parte parte del procedimento venga trasmessa a Cosenza. Il collegio si è riservato la decisione e ha rinviato all’udienza del 25 marzo prossimo. Confermate le costituzioni di parte civile del Ministero della Giustizia e del Comune di Catanzaro.
Sono 55 le persone a processo (altri imputati hanno chiesto e ottenuto il rito abbreviato che avrà inizio oggi). Secondo l’accusa nel carcere Caridi avrebbero operato due organizzazioni criminali che riuscivano a far entrare in carcere e a vendere agli altri detenuti sostanze stupefacenti, telefonini e sim card. Il tutto sarebbe avvenuto, secondo l’accusa, con la complicità di alcuni operatori della polizia penitenziaria e anche di parenti dei detenuti che provvedevano a fornire droga e telefonini. Insomma non un carcere di massima sicurezza ma un «hotel» dove, per usare le parole di un detenuto, «comandiamo noi altri».

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