C'è tutto il pathos che Madama Butterfly ovunque venga messa in scena riesce a suscitare, non c'è spettatore che assistendo alle pene e agli struggimenti d'amore, alle speranze svanite e al sacrificio estremo della “piccina” compiuto davanti al numeroso pubblico, con un teatro Politeama quasi pieno a Catanzaro per la chiusura di stagione, non abbia desiderato, lacrime agli occhi anche solo per un istante, un finale diverso nei dieci minuti di applausi in piedi. Non è andata così. Cio-Cio-San, che significa “signorina farfalla”, la cui vita dura proprio un giorno, segue il suo destino, così come la Violetta di Verdi prima di lei, perché ha osato amare, rinnegando le proprie tradizioni, chi doveva rimanere solo una parentesi. Due mondi a confronto: l'immobile e lento Giappone del 1904 e quello sempre in continua ascesa a due velocità dei colonialisti americani. Butterfly e Pinkerton. Geisha lei, uomo di mare lui. Devota e pronta a convertirsi al cristianesimo in nome di un matrimonio che per lui non è mai stato valido e che condurrà Butterfly a togliersi la vita e a rinunciare al figlio pur sapendo che sarà cresciuto dall'uomo che l'ha tradita e dalla donna che intanto è diventata sua moglie. Nella Butterfly di Mauro Avogrado, che è stato scelto da Gianvito Casadonte e Aldo Costa della Fondazione Politeama per dirigere l'opera 14 anni dopo l'ultima messa in scena, i tratti della modernità che Illica e Giacosa hanno reso eterni e che Puccini ha consacrato come capolavoro, sono tutti visibili anche se il mondo esotico giapponese è più evocato che realistico e non c'è nulla che assomigli proprio all'Oriente: niente fiori di ciliegio, i “sakura” tipici della Butterfly sostituiti da accennate canne di bambù. Tutto è nel vissuto della povera Butterfly che deve essere geisha. Tre gli atti, gli ultimi due divisi dalla sola performance straordinaria dell'Orchestra Filarmonica di Calabria, diretta da Filippo Arlia, che ha accompagnato il trascorrere dell'attesa e del cambio dell'atmosfera tra notte e giorno, per il ritorno di Pinkerton a casa di Cio-Cio-San dopo tre anni per riprendere il loro piccolino che viene chiamato “Dolore”: il figlio dell'abbandono. Maestoso il Coro Lirico Siciliano, diretto da Francesco Costa, la cui presenza è stata dirompente, sia nel primo atto quando in scena ha supportato i protagonisti, sia nella seconda parte quando a bocca chiusa accompagna il ritorno della nave americana. Fra tutte spiccano le esibizioni del mezzosoprano Nicole Brandolino (Suzuki) e del baritono Fabio Previati (Sharpless), i fedelissimi dei protagonisti. In tre ore di spettacolo il Pinkerton di Fabio Armiliato avrebbe potuto tirare fuori più di quanto non abbia fatto. Mentre la Butterfly di Amarilli Nizza, partita sovrastata dalle voci del coro, non brillante nell'aria più celebre dell'opera pucciniana “Un bel dì vedremo”, è cresciuta fino allo struggente sacrificio finale, avvenuto in questa versione di Avogrado, almeno all'apparenza, davanti al figlio, interpretato da un bravissimo studente di lirica catanzarese, Alessandro Carioti, poco più che un bimbo che ha imparato tutto in poche ore. E di Calabria in questa opera ce n'è stata molta: dal tenore Davide Minoliti (il pretendente Yamadori), al mezzosoprano Giorgia Teodoro (Kate Pinkerton) e al basso Vincenzo Chilelli.