Il “non-finito” calabrese (ma è un fenomeno molto più ampio, in tutto il Sud e non solo) non è una cosa necessariamente negativa, ma può essere visto come «opportunità e apertura». Così lo storico dell'architettura Luigi Prestinenza Puglisi ha voluto andare «oltre il non-finito» e ridefinire quel fenomeno tutto meridionale degli edifici che restano incompiuti. Un fenomeno che investe sia le opere pubbliche sia le costruzioni private, seppure con varie gradazioni: dagli scheletri di pilasti e solai a alla semplice mancanza di intonaco. A introdurre questa ulteriore e interessante “lezione” dello Sciabaca Festival, la rassegna promossa dalla casa editrice Rubbettino che si è chiusa ieri con un lusinghiero bilancio in termini di pubblico e di interesse suscitato, è stato l'architetto Emilio Salvatore Leo, nella sua antica fabbrica della lana, a Soveria Mannelli, prestata come scenario particolarmente suggestivo per l'evento. Leo ha ricordato che «il tema del non-finito è di grandissima attualità» e può essere utilizzato come «metafora applicabile allo stato di crisi in cui viviamo» ma anche «all'irrisolto complesso di inferiorità del Sud» che invece è una terra «ancora capace di inventare». Puglisi ha giocato appunto sul dualismo opportunità-apertura. Per descrivere l'opportunità ha citato il caso emblematico della cittadina siciliana di Favara in cui la presenza del “brutto” ha dato vita a una serie di interventi architettonici piuttosto arditi e che non hanno incontrato ostacoli normativi: una cosa che, per dire, a San Gimignano (Siena) non sarebbe mai potuta accadere per i vincoli sui beni culturali e paesaggistici. Favara «ha saputo trasformare una carenza, il non-finito o il “cattivamente finito” in opportunità», perché il non-finito lascia intatte le innumerevoli possibilità di completare, rifinire e migliorare. Insomma si potrebbe paradossalmente - e sia chiara la provocazione - dire agli abitanti di San Gimignano: «Sfortunati voi che vivete in un posto così bello da non poter essere trasformato...». E qui si arriva al concetto di “opera aperta”, ripreso negli anni Sessanta da Umberto Eco nell'omonimo saggio, ma risalente a Michelangelo, il quale affermava che la bellezza non si può fissare in un'immagine data una volta per tutte e che l'opera la finisce chi la guarda. L'architetto Vincenzo Bernardi si è soffermato sulle origini del non-finito calabrese, rintracciandole «nel senso di precarietà del territorio, in quella “natura matrigna” che non fa mai mancare terremoti, frane e alluvioni», ma anche in un retaggio storico costituito da una legge borbonica per cui si pagavano le tasse sulla casa solo quando era stata completata: un esempio di evasione fiscale ante litteram. Il fotografo Angelo Maggio, che ha curato la mostra sul non-finito calabrese, ha fornito il supporto iconografico alla discussione, con la sua ricerca che dura ormai da anni e alla quale, nel 2016, Antonello Caporale ha dedicato un intero capitolo del libro “Acqua da tutte le parti”. Nelle sue foto, il non-finito campeggia accanto a simboli religiosi portati in processione o a una miss Italia o ai tantissimi cartelloni di propaganda elettorale che suonano così falsi fin dalla loro collocazione. Infine, Angela Sposato, che si occupa in prevalenza di enogastronomia e territorio, ha dichiarato di essere «affascinata dal non-finito» trovandolo poetico e drammatico nello stesso tempo. È come «l'attesa di un avvento che non ci sarà», come un piano della casa predisposto per i figli che non torneranno mai più ad abitarci. Ma in fondo noi calabresi «godiamo del nostro non-finito e intanto lo usiamo per stendere i panni o per essiccare peperoncini al sole».