“Moldava”, il poema sinfonico di Smetana, una delle "canzoni" classiche per eccellenza. Segue il “Concerto Triplo” di Beethoven, protagonisti tre artisti coreani di Deutsche Grammophon: Young Hyun Cho al piano, Elisabeth Kropfitsch al violino e Meehae Ryo al violoncello. Infine il “Capriccio Spagnolo” di Rimski Korsakov, opera d’ispirazione popolare che, pur nel pieno rispetto del metodo di composizione classico, rende omaggio alla nacchere e alla loro lunga tradizione. Il Maestro Filippo Arlia che dirige l’Orchestra Sinfonica della Calabria, special guest Mogol, che terrà un workshop per i ragazzi del conservatorio Tchaikovsky. La serata sarà condotta da Veronica Maya. È il programma con cui stasera il Politeama di Catanzaro inaugura la sua Stagione Sinfonica, il primo dei cinque che comporranno il cartellone 2020. E già si intuisce la contaminazione di un progetto in cui l’assolutamente classico di Beethoven e Schumann aprirà all’innovazione dei suoni di Korsakov e, attraverso l’inevitabilmente contemporaneo di Bennato, giungerà al mix “visionario” tra Prokoviev e Insegno del gran finale dedicato alle scuole. Opera di un musicista com’è Filippo Arlia, direttore (il più giovane d’Italia) del “Tchaikovsky” di Nocera Terinese che, già dall’attivazione del Dipartimento di Canto Pop nel suo Conservatorio, ha dimostrato di vedere oltre. «Il Ventesimo secolo ha esaurito ogni possibilità di innovazione per la classica, se vogliamo non ne resti che un soprammobile da museo, tocca rinnovarci dentro e guardare fuori», Arlia ne è convinto. In fondo, «chi canta Battisti può pure ascoltare Stravinskij. E invece ancora ti accorgi che la “Sagra della primavera”, se la porti a Teatro fanno finta di non capirla, se Walt Disney la usa come colonna sonora (di “Fantasia”) arriva fino ai bambini. Poi scopri pure che Chopin ha scritto i suoi Valzer e le Mazurche ispirato dalla vita di campagna polacca, dalle sue danze popolari... E capisci che la musica è liquida, siamo noi a metterle argini». Capisci pure che quello col Tchaikovsky è un altro dei binomi possibili di Mogol. Oltre a quel Mogol-Battisti patrimonio dell’umanità («di 151 successi certificati in carriera, metà li ho condivisi con lui»), al Mogol-autore, non paroliere («il paroliere fa la settimana enigmistica, è un’altra professione»). Oltre al sodalizio con Bella. Peraltro con Gianni, Giulio non solo ha firmato (e Celentano l’ha cantato) “L’emozione non ha voce”, praticamente il suo risultato discografico migliore di sempre: insieme hanno osato nel melodramma. “La capinera” (liberamente tratta dal romanzo di Verga) è stata accolta come un capolavoro, a dicembre 2018 il Massimo Bellini di Catania ne ha ospitato il debutto (sold out), «eppure fin qui nessun altro sovrintendente ha avuto il “coraggio” di ascoltarla» (e legittimarla). A proposito di argini. Ma esattamente, che ci fa Giulio Rapetti Mogol all’Open Day di un conservatorio? «Una lezione, su come si canta nel mondo oggi rispetto a quarant’anni fa». E come si canta oggi? «Si comunica, non si canta più. Non è più quell’esercizio vocale finalizzato alla potenza, all’estensione o alla tecnica per raggiungerle. I reality ancora vanno avanti a squarciagola, il “belcanto” da noi spesso fa scuola, ma chi ha una visione allargata al resto del mondo lo sa (e da un pezzo) che Sting non ha bisogno di urlare. Dylan è stato il primo, dopo Battisti, in un altro modo. Al Boston, Berklee, ad Harward hanno già capito che popolare non significa improvvisato. Che la classica va custodita, ma non si possono ignorare i numeri di chi ascolta altro. Che la musica alla fine si distingue in bella o brutta. L’importante è essere credibili con le parole che si dicono». Fondare il Cet (Centro Europeo di Toscolano, la sua accademia per autori, compositori e interpreti) è stata una grandissima intuizione… «Dal Cet uscirà la nuova cultura popolare». Sono già venuti fuori Arisa, Amara, Giuseppe Anastasi… «Le anticipo che il lavoro di questi ventott’anni diventerà una trasmissione televisiva, ne avevo già discusso con Teresa De Santis, ne riparlerò col nuovo direttore. Tre serate come un Sanremo fatto in casa, canzoni nuove di allievi dell’Accademia, incursioni a parole mie. Un patrimonio a concorso. Probabilmente andrà in onda a maggio, si intitolerà “L’Università del Pop”». Ha citato Sanremo… la lista l’ha letta? «La verità? No. Ascolterò direttamente le canzoni. Me le auguro buone e che siano la materia più importante del Festival». Il rap ormai è residente. La scriverebbe una barra? «Scrivo solo sulla musica, sulla sola ritmica dovrei inventarmi tutto. L’ispirazione mi arriva dalle note e la suggestione di quello che sento poi mi ispira il testo. Funziono così» (sorride). Proprio dal 29 settembre (2019), il canto di Mogol-Battisti è finalmente libero. «Ha conquistato Spotify! Quello a cui generazioni intere non avevano accesso, se non magari attraverso i genitori o i nonni, è diventato disponibile alle condizioni di oggi. Abbiamo vinto la battaglia, il muro è caduto. E i ragazzi hanno capito che quel discorso di allora ha senso anche per loro». Pensieri e parole, emozioni. Crede che il talento si possa insegnare? «Leonardo Da Vinci prima di fare la Gioconda è andato a bottega dal Verrocchio ad imparare. Se con lui ha funzionato…».