«Avete della cromatina? C'è un graffio su questa cornice». Alto, ieratico, barba e capelli bianchi fluenti, Max Marra, calabrese di Paola che vive a Monza e opera a Lissone, ha l'impatto visivo di un personaggio biblico. Un artista bifronte, da un lato carisma e autorevolezza, dall’altro l’umiltà dell'artigiano di bottega medievale immerso nella “cura” dei suoi lavori, sue creature e sua storia. Siamo al Marca, il museo d'arte contemporanea di Catanzaro diretto da Rocco Guglielmo. Marra sta ultimando con l'architetto Giovanni Ronzoni l’allestimento della mostra “L’inquieta bellezza della materia” che sarà inaugurata oggi per durare fino al 7 settembre, curata da Teodolinda Coltellaro e promossa dalla Provincia con la Fondazione Rocco Guglielmo. Centoquindici opere tra cui 41 provenienti da collezioni, due assemblaggi polimaterici, un’installazione e 38 “timbriche” impaginate come opera unica. Nel suo “tour d'ispezione” Marra scopre che il bordo di una pittoscultura (così definisce le sue opere tridimensionali) è appena scheggiato. Occorre sanare la ferita, riparare il danno. Il lucido per scarpe ha i pigmenti adatti. L’anonimo nitore della cromatina assurge a salvifico unguento che restituisce all’opera d’arte l’originaria perfezione. Irrompe così, casualmente, attraverso una piccola falla da emendare, il linguaggio anarchico di un artista ossessionato dai materiali “poveri”, residuali come l'umanità dolente confinata ai margini dalla cultura dominante. Un’arte “di ricerca”, che antepone gli scarti ai lapislazzuli. Imponenti volumetrie, sghembe protuberanze, pance lacerate da cicatrici abnormi, contorsioni metalliche, patchwork rigonfi come labbra martoriate da ritocchi clowneschi, prendono forma da materiali rozzi e grezzi come stoppa, corda, iuta, viti, pietre, catrame, sporche tele da camion, reti da pesca, carta, rifiuti. Oggetti tradizionalmente privi di dignità artistica sono sottratti all'abbandono, nobilitati e rigenerati da una tecnica originale che mescola pittura, cera, colori rarefatti come il bianco, il marrone, il nero antracite. Ma anche il rosso cadmio, violento e brillante, purpureo o scarlatto, concentrato sontuoso di elegante energia. Il risultato di questa dissacrazione estetica, di questo sporcarsi le mani con materiali di risulta è una galleria di opere raffinate, dinamiche, ad alto impatto comunicativo e didattico. Non a caso Marra è stato a lungo docente di meccanica e chi lavora nella scuola non smette mai di insegnare. Opere “inquiete” che illustrano l'angoscia dei tempi, il disfacimento di una società vuota e cinica, che emargina anziché includere, rifiuta anziché accogliere. Al contrario di Marra, che insegna il valore degli scarti, la silenziosa bellezza dei reietti. Il suo è un progetto inclusivo e solidale orientato a riparare, ricucire, purificare, salvare. Come il chirurgo restituisce dignità al corpo violentato, Marra vuol “risanare le ferite del tessuto sociale”. Perché la riscossa degli ultimi è il sogno e il segno di una dimensione creativa che sconfina nella politica, intesa nell’accezione più alta del termine. Il movente di un’arte influenzata dall’espressionismo tedesco (satira corrosiva, fisicità dell'immagine) e dalla vocazione sociale del dramma. Senza scomodare Brecht, va ricordato che Marra adolescente dedicava molto tempo all'attività teatrale praticata al Convento di San Francesco. Una delle poche opportunità che Paola poteva offrire a ragazzi come lui che, figlio di un ferroviere, sognava solo di salire sul treno, verso le capitali della cultura e dell'arte. Dai laboratori teatrali l'artista deriverà la potenza drammatica delle installazioni. Dal culto del Santo, la visione taumaturgica dell'arte, ispirata ai “miracoli” del Patrono della Calabria. Protagonista di alcune tra le opere in mostra al Marca, San Francesco simboleggia la solitudine che accomuna il santo all'uomo contemporaneo. Integrazione tra scultura e pittura, assemblaggi e contaminazioni marcano il percorso evolutivo di Max Marra. Nato a Paola nel 1950, poco più che ventenne Marra si trasferisce a Taranto per lavorare in uno stabilimento siderurgico. Poi sceglie Monza e la docenza, aprendo un atelier d'arte a Lissone. A Milano si afferma velocemente. Collabora alla fondazione di Osaon, movimento in cui si intrecciano poesia, scrittura, gestualità, musica. Risalgono agli anni Ottanta due cicli di opere che rimandano alla terra d'origine: la serie dedicata a San Francesco di Paola e la ricerca pittorica “A.s.P.”, acronimo di Appunti sul Ponte, incentrata sulle speculazioni che minacciano Calabria e Sicilia. Anche “Cieli di cosmos”, sessanta “costellazioni” di cuciture, richiamano i rammendi alle reti dei pescatori di Paola. Fino alla mostra in corso “Chagall. La Bibbia”, a cura di Domenico Piraina, in cui espone opere della serie “Il ghetto” a Catanzaro. Un ritorno alle origini, dopo il lungo esodo.