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Cento anni dalla nascita di Franco Costabile, poeta necessario

Ripubblicati, per l'anniversario, i suoi versi. Un artista geniale il cui io lacerato tra i miti del passato e le urgenze della contemporaneità ci parla ancora oggi con vigore

Per «il suo cuore troppo cantastorie», quello del grande poeta calabrese Franco Costabile (Sambiase 1924-Roma 1965), Giuseppe Ungaretti, a lui legato sino alla fine, aveva scritto l’epitaffio, inciso sulla lapide del cimitero di Sambiase (oggi Lamezia Terme) che accoglie Costabile come «una rosa nel bicchiere», immagine iconica dei versi con i quali la Calabria gli «riposava nel cuore» («Un arancio/il tuo cuore/, succo d’aurora/. Calabria/ rosa nel bicchiere», da La rosa nel bicchiere).

Sembra quasi che vengano da un Altrove, che sia celeste, alchemico, o dell’inconscio, i bellissimi versi raccolti in «La rosa nel bicchiere», silloge di tutte le poesie di Costabile pubblicata per il centenario della nascita del poeta e letterato dall’editore calabrese Rubbettino, cui si deve il lodevole e costante progetto editoriale di valorizzazione e diffusione delle opere di tanti scrittori e poeti calabresi del Novecento, altrimenti dimenticati o negletti (da secoli i frivoli uccidono i poeti, ha scritto Angelo Maria Ripellino).

Si ha bisogno dei poeti, coscienza vigile dell’umanità e investimento nella speranza, limpida sorgiva, anche quando pare che il poeta non abbia più epifanie da donarci, e proprio quando la continua emergenzialità e complessità del mondo, l’assenza e l’indifferenza pongono nuove spaventose sfide che ci riguardano tutti. L’onda del tempo non travolge la Poesia, sul fuso del tempo il filo della Poesia si riavvolge sempre in un eterno ritorno che prescinde da appartenenze letterarie e categorie storiche: come i versi di Costabile che la silloge di Rubbettino ci restituisce vivo e palpitante, con la preziosa introduzione di Aldo Nove e, a cura di Giovanni Mazzei, le illuminanti note biografiche e la sezione delle “Poesie disperse” (una serie di componimenti mai confluiti in raccolte ma apparsi su riviste letterarie e periodici a lui coevi).

Usava il verso come una necessità (la poesia che si attacca all’esistenza del poeta come corpo), Costabile, che – lo ricorda Nove – , rappresenta assieme a Lorenzo Calogero «le più alte vette della poesia calabrese del secolo passato»: entrambi «maestri così lontani e così vicini», facitori di versi per i quali, per trovare la sorgente aurorale della loro poesia, il senso della loro askesis, della loro inesausta ricerca, bisogna tornare in quei luoghi della geografia «degli abbandoni e dei ritorni», come li chiama l’antropologo calabrese Vito Teti.

Del resto la poesia stessa è una condizione di esilio nella quale fare esperienza della dimensione arcana del mistero dell’esistenza, l’altrove nel quale si alimenta la coscienza del poeta che in quella soglia liminare tra sogno e quotidianità si trattiene per ripararsi dalle frane della vita. E, come un miracolo, da quell’altrove i versi funzionano come antidoto-balsamo alla pena di vivere.

Dunque, sentiva la poesia come una condizione esistenziale Costabile, che visse l’abbandono come categoria sin da quando il padre Michelangelo, qualche mese dopo le nozze e prima ancora della nascita del futuro poeta – come annota Mazzei – lasciò la Calabria e la famiglia per emigrare in Africa, dalla quale non sarebbe più tornato.

Forse per questo suo animo sgualcito Costabile guardò ai suoi maestri-padri: prima da studente del liceo classico “Fiorentino” di Nicastro si legò al docente e filosofo Oreste Borrello. Poi, dopo una breve parentesi universitaria messinese, a Roma, dove, laureatosi in Lettere alla Sapienza, con una tesi in paleografia, tra gli anni ’40 e ’50 «s’inserì in una cerchia di giovani intellettuali che con il proprio fermento artistico contribuiranno a un autentico e profondo rinnovamento culturale della Capitale e del Paese» (così Mazzei): Bassani, Accrocca, Citati, Pasolini, Saviane, Enotrio Pugliese e, sopra tutti, Ungaretti, di cui fu allievo e rimase sempre per lui maestro di vita e di poesia.

Nasceva un poeta e ne dava conferma la sua prima raccolta del 1950, «Via degli Ulivi», apprezzata, tra gli altri, da Vittorio Sereni, da Giorgio Caproni, da Raffaello Brignetti (con cui Costabile intrattenne un intenso rapporto di amicizia). E cresceva la sua poesia radicata nella riflessione filosofica sul senso stesso dell’uomo, tra stupori ed epifanie «nel sonno degli ulivi», e nella meditatio mortis che è parte della natura, modello di bellezza e moralità, eden smarrito «negli anonimi spazi della città» dove il poeta non trovava «più nulla degli anni perduti», né «dell’infanzia dei profumi».

E se «Via degli Ulivi» conteneva già una dichiarazione di poetica, con l’io lirico dilatato a farsi compartecipe dell’assenza, della mancanza, della perdita di cui l’uomo è malato, tra macerie e abbandoni, con «La rosa nel bicchiere» (1961) «vertice e punto di rottura di una poesia altissima, severo capolavoro» – scrive Aldo Nove – , la lacerazione del verbo, diviso tra passato mitico della Calabria e urgenza della contemporaneità, si rapprende, tra sussulti e sospensioni (con l’uso frequente dello stile nominale), sui temi scottanti del reale.

Penetrare le ombre di esili e migrazioni diventava pasoliniana denuncia dell’omologazione; mentre il poeta viveva ancora una complicata vicenda famigliare, la parola scavata fino all’essenziale a far emergere voci arcane e moti misteriosi, inquietudini e furori: un io in rivolta anche con se stesso che registrava tra epigrammismo folgorante e audaci accostamenti sinestetici, come «uva e alba» fossero «diventati merce».

Ma non bastano improvvise accensioni liriche di endecasillabi, come lo splendido «Un passero cinguetta in calabrese» ad addolcire l’amarezza di fronte all’eden perduto: il suo Sud, vittima della «truffa dell’Unità d’Italia», la storia-incubo (come recita in forma antiepica in «1861» e con cadenza da coro greco in «Canto» e «Cammina con Dio»), le elezioni di turno con «l’onorevole che torna calabrese», la disillusione di una «Calabria infame» e lo sguardo innamorato di chi tuttavia non dispera: «Ecco, /io e te, Meridione/ dobbiamo parlarci una volta, ragionare davvero con calma, da soli/,senza raccontarci fantasie/ sulle nostre contrade./ Noi dobbiamo deciderci/ con questo cuore troppo cantastorie» (Apologo da “Noi dobbiamo deciderci”).

La poesia come dimora effettiva ed affettiva, le parole che si fanno stele e obelisco in cui incidere a futura memoria, prima della tragica conclusione della sua vita. «Costabile, grande poeta d’Europa», scrive Aldo Nove.

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