Catanzaro, Crotone, Vibo

Giovedì 19 Settembre 2024

In quel «Campo di battaglia» non ci sono vincitori: a colloquio con Gianni Amelio

 
 
 
 
 

La Grande Guerra raccontata dal maestro Gianni Amelio offre uno scenario inedito, quello di un ospedale militare, il «Campo di battaglia» che dà il titolo al film. Due amici, due medici, magnificamente interpretati da Alessandro Borghi (Giulio) e Gabriel Montesi (Stefano). Il primo che, come dovere professionale impone, fa di tutto per salvare i feriti e rimetterli in sesto perché tornino in trincea. Il secondo che subisce la drammaticità e l’incongruenza del salvarli per rimandarli a combattere e andare incontro a morte certa. È questo il conflitto nel conflitto. E, come se non bastasse, appena prima che «Si tacque il Piave e si placaron l'onde», ecco irrompere la pandemia della Spagnola.

Stasera alle 20, al cinema Citrigno di Cosenza, si terrà una presentazione speciale di “Campo di Battaglia” alla presenza del regista Gianni Amelio che incontrerà il pubblico in sala e, al termine della proiezione, terrà un dibattito sulla pellicola. La serata evento è organizzata da Giuseppe Citrigno, presidente Anec Calabria e amministratore della Cgc Sale cinematografiche, e darà il via all’undicesima edizione del festival «La Primavera del Cinema italiano – Premio Federico II», a Cosenza fino al 28 settembre.

Abbiamo incontrato Gianni Amelio, calabrese di Catanzaro, che sarà anche nella sua città natale e a Messina. E prima di iniziare l’intervista ha tenuto a sottolineare il suo grande legame con il Sud Italia. In particolare con Cosenza, dove ha ricevuto la laurea honoris causa; con Messina, città in cui ha studiato all'università, nella facoltà di Filosofia; con la natia Catanzaro dove ha iniziato a frequentare le sale cinematografiche. Sono tanti i campi di battaglia che s’incontrano nel suo film, forse alcuni più strazianti della trincea… «Il vero campo di battaglia era l'ospedale militare, dove arrivavano centinaia di feriti che i medici dovevano portare alla guarigione per poi rimandarli al fronte. E quindi si può capire come qualche medico avesse degli scrupoli nel gestire questa situazione, di fatto un prolungamento della guerra. I medici cercano di fare di tutto per salvare la vita ai militari. Però la contraddizione è enorme! Ti salvo la vita, ma ti rimando di nuovo a combattere. Ecco che allora c'è un personaggio importante, nel film, che cerca di avvicinarsi in modo diverso a questo problema enorme della guarigione dei soldati. È uno dei due amici protagonisti della pellicola, Giulio. E reagisce in una maniera molto più drammatica, al limite della crudeltà, ma in nome della vita, perché sa che la guerra semina morte. Quindi, è un film dove non ci sono buoni e cattivi: Stefano si comporta secondo ciò che gli viene imposto dal dovere, e Giulio interviene sui soldati, in nome di una possibile continuità della vita. Forse sbagliando metodo, ma con tutta la buona volontà del mondo. E in mezzo c'è una figura femminile, Anna, molto importante, che essendo donna, non poteva all'epoca aspirare a una laurea in medicina. Pur molto brava, come dice una battuta del film: “Non si dà il massimo dei voti a una donna”. Ecco, quindi, ancora una volta, le donne sono private della loro libertà di esprimersi. Lei sarebbe un medico magnifico. In realtà deve “accontentarsi” di essere un'infermiera. Questa è la storia. Poi dentro ci sono tante cose. C’è anche un’Italia che non è ancora patria. E in cui i soldati tra di loro non riescono a capirsi perché ognuno parla il proprio dialetto. Ci sono ragazzi giovanissimi, quasi impossibili da immaginare dentro una trincea».

Uno spaccato inedito della Grande Guerra. Senza vincitori né vinti, senza eroi da elevare sugli altari, senza scene epiche di battaglie cruente. Con un carico di maschere dolorose che affrontano i fantasmi delle loro paure, delle loro idee, delle loro passioni… «Sì, la cosiddetta Grande Guerra è stata molto particolare perché si è svolta praticamente corpo a corpo. Tra soldati che si guardavano in faccia. È stata una guerra che somigliava di più a un macello. Le guerre sono tutte ingiuste. Portano solo morte. E la politica dovrebbe intervenire perché non scoppino. Ché le guerre, poi, sappiamo che arrivano per ragioni che vanno al di là delle esigenze della gente comune. Questi sono solo vittime che subiscono le decisioni dall'alto, dal potere che chiama sempre più potere. Una logica terribile perché poi tutte le vittime sono innocenti sia i civili sia i militari, ragazzi di 19-20 anni, nemmeno addestrati, che vengono sbattuti dal Sud al Nord, senza che ci sia una ragione che li riguardi, che possa migliorare la loro vita. Sono carne da macello utilizzata perché i grandi del mondo riescano a spartirsi il potere. Come del resto succede anche oggi. E non sono molto lontane da noi le guerre attuali, perché le sentiamo e le avvertiamo e le vittime ci fanno più che compassione. Voglio dire, si capisce come una madre russa non voglia che il figlio vada a combattere in Ucraina perché è la logica di un dittatore che vuole sia invaso un altro Paese per allargare i propri territori». Spagnola e Covid 19… quanto è stato difficile addentrarsi nella narrazione d’una pandemia accaduta un secolo fa senza portarsi dietro la fresca esperienza vissuta in prima persona? «No, non c'è stata alcuna difficoltà. Quando si gira un film o si scrive un libro si raccontano dei fatti nel modo più appassionante possibile. Perché l'emozione arrivi allo spettatore o al lettore. Ho studiato tanto, ho visto documentari che hanno raccontato sia la guerra sia la Spagnola. È tutto vero quello che ho raccontato. Certo, con le figure dei soldati leggermente romanzate. Anche i due medici sono realmente esistiti, così come è realtà che nell'ultimo anno della guerra mondiale si scatenò l'epidemia che ha avuto tutto il tempo di manifestarsi e svilupparsi, soprattutto tra i soldati, perché le condizioni fisiche e igieniche nelle quali loro vivevano erano terribili».

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