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La Turandot pura di Chrystelle Di Marco al Politeama di Catanzaro: "Giovani, venite e vedrete"

La vedremo la sera di sabato 5 ottobre sul palcoscenico del Teatro Politeama, a Catanzaro, protagonista del ritorno dell’opera lirica in città, per il primo fine settimana dell’edizione 2024 del Festival d’autunno. È Chrystelle Di Marco, il soprano che in scena sarà Turandot, la principessa di ghiaccio che dà il titolo all’ultima opera composta – ma mai ultimata – da Giacomo Puccini. E quale titolo migliore per omaggiare il maestro toscano nel centenario della sua morte, se non la sua ultima opera?

Deve averlo pensato Antonietta Santacroce, direttore artistico del Festival d’autunno che co-produce l’allestimento insieme al Festival Teatri di Pietra. Chrystelle Di Marco ha infatti debuttato già, con il resto del cast, l’Orchestra filarmonica della Calabria e il Coro lirico siciliano, lo scorso agosto al Teatro antico di Taormina, dove ha ottenuto riscontri non da poco. Adesso il soprano italo francese si prepara a conoscere il pubblico calabrese, che, ammette, non conosce.

«I miei nonni sono originari della provincia di Palermo, di Roccapalumba. Poi c’è anche un ramo di Procida, che erano pescatori, infatti ho questo forte legame col territorio. Vivo vicino Tolone, a due passi dall’Italia e spesso vengo a fare un giretto dalle vostre parti. In Italia sono stata dappertutto, ma ancora mai in Calabria».

Cosa significa interpretare Turandot?

«Significa tanto perché è un ruolo fortissimo, difficilissimo. E poi è l’ultima opera di Puccini quindi a livello emozionale è immenso: Turandot è un monoblocco di rabbia, di durezza, non sa cos’è l’amore, è in questo che è difficile questo ruolo perché chiede tante risorse interpretative per mantenere questa intensità di marmo, per rimanere molto crudele, anche se alla fine si scioglierà».

È una cosa che non vedremo, giusto?

«No, perché ci fermeremo alla morte di Liù, fino a dove si finisce la composizione del maestro Puccini che non ha mai concluso quest’opera, morendo prima. Però sappiamo che aveva deciso una fine molto esplosiva, forte, dove l’amore vince. Del resto Turandot è riscaldata dal sole: mi spiego, a me piace andare in profondità nell’opera e questa in particolar modo Puccini l’ha scritta come fosse un’opera alchemica».

In che senso?

«A livello simbolico Turandot incarna la Luna, mentre Calaf il Sole. E abbiamo altri pianeti come Liù che è Venere e Tirmur Saturno, però Turandot inizialmente ha una perdita della sua identità: se la guardiamo a come luna piena, sappiamo che quando si incontrerà con Calaf sarà una luna nera, nefesta e quindi lei perderà la sua purezza, la sua essenza, per recuperarla alla fine dell’opera. È un percorso un po’ esoterico che comunque porta sempre avanti l’amore, alla fine è di questo che parliamo».

È questo ciò che rende Turandot un’opera unica?

«Sì: c’è un concetto di rinascita attraverso un percorso iniziatico, per arrivare a liberarsi e a trovare il percorso giusto dell’essenza dell’essere umano, che è l’amore. Non è mica una storia così, semplice».

Cosa ha pensato quando ha ascoltato Turandot per la prima volta?

«Sono rimasta senza fiato. Ero al Teatro dell’Opera di Tolone ed ero nel Coro dei bambini, avevo undici anni e ascoltai per la prima volta Tosca: sono rimasta commossa da questo compositore che mi ha toccato l’anima, dalla scrittura molto passionale, fisica. Mi sono avvicinata a lui così, e ho voluto conoscere tutte le altre opere: quando sono arrivata a Turandot è stato un colpo. Mi sono sentita avvolta in un mondo di magia: per me Turandot era da sempre intoccabile, con tutto il suo mistero. Mi sono accostata in punta di piedi allo studio del personaggio sia perché si trattava dell’ultima opera di Puccini, sia perché ho scoperto tutto il mondo dell’esoterismo, alle cose occulte nascoste in quest’opera che lui non è neanche riuscito a finire. Tutto questo dà più magia ad un’opera straordinaria».

Possiamo quindi dire che Puccini è il suo compositore preferito o possiamo fare qualche altro nome?

«Ne ho tre: Puccini, Verdi e Bellini. Con Puccini ho un legame fin da bambina, perché è stato lui a farmi avvicinare all’opera. Non a caso quando qualcuno vuole accostarsi alla lirica, io consiglio sempre di cominciare con Puccini perché è più facile, è una musica più umana; con Verdi la musica è più spirituale, con Bellini diventa proprio eterea, è un astro di melodia infinita. Sono tre diversi livelli dell’essere umano».

Ci sono ruoli che vorrebbe fare e che ancora non ha avuto modo di interpretare?

«Sì, il ruolo di Elisabetta nel Don Carlo di Verdi. È un’opera che mi affascina tantissimo per la complessità delle relazioni umane: il personaggio è nella scatola del potere con una libertà completamente oppressa, c’è una musica che mi riempie davvero l’anima. Sì, vorrei davvero cantarla e il più presto possibile».

Lei è italo francese: è un vantaggio nel mondo della lirica?

«Certamente, sono molto fortunata, perché l’Italia è la base dell’opera. Si deve parlare italiano per entrare nel testo, per scavare nell’essenza delle emozioni le devi capire, devi sentire questa lingua che a me piace tantissimo, è unica e diretta. Il francese è anche bello però, con una scrittura molto più intellettuale, l’italiano invece è canto puro già nella sua lingua. Uno dei primi consigli che do a chi vuole fare lirica è di conoscere l’Italia, anche andarci a vivere per qualche mese, di ascoltare questo Paese, c’è un impulso di vita diverso da quello francese. Sono stata fortunata di avere l’Italia nel sangue».

C’è qualcosa di particolare in questa Turandot che vedremo sabato 5 ottobre al Teatro Politeama?

«Prima di tutto hanno scelto di fare una versione purista, ma non così frequente, che si ferma fin dove è stata scritta da Puccini. È un’emozione molto forte perché prendiamo proprio coscienza della morte di Puccini, di cui ricorrono i cento anni. Poi c’è la mise en espace di Salvo Dolce che è molto bella: c’è un intrecciarsi di classico e moderno, Salvo ha colto la profondità di quest’opera e l’ha resa perfettamente. Dà bene l’idea dell’eternità dell’opera, lui lo ha capito e l’ha restituita molto bene».

Cosa direbbe a chi non ha ancora deciso di venire a vedere Turandot, sabato sera?

«Mi rivolgo soprattutto ai giovani: devono venire a vedere quest’opera, Puccini è di facile ascolto, non rimarranno delusi da ciò che sentiranno e vedranno. Turandot sarà una preghiera d’amore che potremo vivere insieme e portarci dentro, ognuno con un suo pezzo di luce, in comunione gli uni con gli altri. E in quest’anno particolare penso ci voglia proprio».

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