Smart Work», che dramma! Parla l’autore dello spettacolo pluripremiato, il lametino Gianluca Vetromilo
Continua a raccogliere successi con il suo spettacolo «Smart Work», per il quale ha curato scrittura (con Armando Canzonieri) e regia, dirigendo il giovane attore Francesco Rizzo nella contemporanea tragedia dei giovani lavoratori precari, sfruttati, esauriti, incastrati in una società routinaria e deleteria, in cui si è costretti a una sopravvivenza infinita. Lui è Gianluca Vetromilo, attore, regista e artista di strada che nel 2018 ha fondato a Lamezia Terme, con Armando Canzonieri e Achille Iera, la compagnia «Mammut Teatro», dopo un lungo percorso di esperienze formative con nomi quali Eugenio Barba, Cesar Brie, Davide Iodice. Con «Smart Work» – andato in scena con successo in molti centri – la compagnia si è già aggiudicata il Denver Fringe award, il Cantiere Obraz award, il Teatro Sambuca di Sicilia award, il premio “Non ci resta che ridere” e la menzione speciale Prague Fringe Off al Milano/Catania Off Fringe. Abbiamo parlato con Vetromilo, già impegnato col nuovo progetto «Emilia e basta», semifinalista al premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti. Come, quando e da quali esigenze nasce lo spettacolo Smart Work? «Dalla necessità del momento. Abbiamo iniziato a lavorare nel periodo postpandemia, quando cominciarono a diffondersi soluzioni lavorative alternative come lo smart working. Fin da subito si è aperta una riflessione sulle conseguenze che ne sarebbero derivate. La domanda fu: come faranno adesso i colleghi di lavoro a parlare tra loro, a fare pausa pranzo insieme? Quindi, mentre si parlava tanto di smart working, pensavamo al sempre maggiore distacco tra le persone, all'alienazione dei rapporti, allo schermo di un computer come posto sicuro. In un mondo che va sempre più di corsa, stiamo perdendo i valori del tempo e dei rapporti sociali. Si parla tanto di “lavoro intelligente”, allora abbiamo iniziato ad approfondire tutta una serie di lavori considerati flessibili, come quello del rider e dell’operatore dei call center, realizzando che, in realtà, di flessibile c’è ben poco». Portando lo spettacolo in giro per l'Italia quali sono state le differenze di percezione nel pubblico? «Lo spettacolo parla di un ragazzo del Sud che si trasferisce a Milano per l’università e poi decide di rimanere. Sceglie di restare al Nord perché ha paura di quella sensazione di fallimento che ci si sente incollata addosso quando si rientra nella propria terra. Rimane perché sa che, se solo esistesse una minima possibilità per uno sbocco lavorativo in linea col suo percorso, sicuramente non sarebbe al Sud. Lo spettacolo è stato al FringeOff a Milano, dov’è ambientato, e, ovviamente, le reazioni lì si sono sentite: è una città con una comunità di meridionali enorme, e molti si sono riconosciuti in questa storia. Questa cosa ci ha colpiti molto. Ed è stato sicuramente un pubblico differente, forse più malinconico. Milano l'ha sofferto di più “Smart work”. A Firenze è stato ancora più sorprendente: un uomo di una sessantina d’anni dopo lo spettacolo ha inviato un commento sui social. Si scusava perché si sentiva in qualche modo responsabile “per le macerie lasciate alle nuove generazioni”, cito testualmente. E la questione del lavoro non riguarda, purtroppo, solo il Sud». Qual è dunque il segreto per uno spettacolo teatrale di successo? «Beh, se ce n’è uno voglio saperlo anch’io! Penso che non ci sia un segreto, tantomeno un modo per costruire una cosa di successo, se poi questo è legato all’arte, all’atto creativo, parte da un’esigenza, da un atto forse irrazionale e personale che a volte, anche se raramente, ha il magico potere rivelatore di farsi portatore universale di un messaggio, anche banale, ma che accomuna molti. Quando si parla di diritti è ovvio che poi il messaggio è più forte e spesso abbraccia più persone di quanto ci aspettassimo. Non esistono spettacoli di successo ma spettacoli “sentiti”. Il vero problema è che la gente non va più neanche a teatro. Bisognerebbe partire da questa domanda forse». I prossimi progetti di Mammut Teatro? «Abbiamo ancora tante cose da fare, quindi non ci fermeremo. In questo momento stiamo già lavorando ad un nuovo progetto, ancora in fase embrionale ma già selezionato come semifinalista al premio Dante Cappelletti, e che tenta di approfondire il rapporto col dolore, psicologico e fisico».