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Natuzza, 80 anni fa la cresima e la croce di sangue sulla camicetta

Ricorre oggi l’ottantesimo anniversario del giorno in cui la Serva di Dio Natuzza Evolo, morta in odore di santità il primo novembre del 2009 e di cui è in corso il processo di beatificazione, fu protagonista di uno dei primi fenomeni: la materializzazione sulla sua camicetta una croce di sangue.

Quel giorno del 29 giugno 1940, giorno di San Pietro e Paolo, la giovanissima Fortunata, di cui già si vociferava dei suoi “colloqui” con le anime dei morti, ricevendo dal vescovo della diocesi di Mileto monsignor Paolo Albera il sacramento della cresima nel momento in cui venne segnata con l’olio del crisma, dopo avere avvertito un brivido alla schiena, si accorse, insieme alle altre persone presenti,  della presenza della croce di sangue sui suoi indumenti. Fu questo uno dei primi segni di quello che sarebbe stato il suo cammino di missionaria della buona parola al servizio degli ultimi e dei sofferenti.

La notizia fece ben presto il giro di tutta la comunità fino ad arrivare anche fuori dai confini regionali tant’è che a Mileto incominciarono ad arrivare gli inviati di numerosi giornali. Ma il fatto che fece più rumore e che stiamo per raccontarvi nei particolari accadde nel mese successivo, in cui la Madonna, che aveva incominciato a manifestarsi sul finire degli anni Venti, disse a Natuzza che il 26 di luglio avrebbe fatto “la morte apparente”. La ragazza di Paravati in quel momento non comprese il significato dalla parola “apparente” e disse a chi le stava vicino e, in particolare alla signora Alba che aiutava nella faccende domestiche che sarebbe morta e che, finalmente, avrebbe raggiunto il suo Gesù. Stiamo parlando della moglie dell’avvocato Silvio Colloca, una donna particolarmente religiosa che alla piccola Natuzza credeva molto anche perché era stata la testimone diretta dei suoi primi fenomeni.

Nel giorno preannunciato la giovanissima Natuzza cadde proprio in casa Collo a Mileto, a pochi passi dalla chiesa Catterdrale, in  un sonno profondo. Confiderà poi testualmente alle persone a lei più vicine e ai suoi padri spirituali: «Chi piangeva di qua, chi piangeva di là. Io non piangevo, ero contenta. Fu così che mi addormentai. Era di sera, era tra lume e lustro, ma per me non era tra lume e lustro, perché mi trovai in un posto bellissimo, che era come una cupola, ma largo, largo, largo e rotondo come una piazza». Quel sonno durò sette interminabili ore. Fortunata Evolo in quello spazio di tempo, che le persone del posto più anziane ancora ricordano come se fosse oggi, era attorniata da numerosi medici che stavano lì ad aspettare la sua morte.

Fuori, richiamati dal clamore della vicenda, seguivano le varie fasi, tenuti a distanza, gli inviati di alcuni importanti quotidiani nazionali  e numerosi curiosi. Tutti volevano vedere e capire. Racconterà poi al suo risveglio Natuzza che “si era trovata in Paradiso al cospetto di Gesù che le chiese di “portare a lui le anime, di amare e compatire, di amare e soffrire”.Disse anche che “ c’era una luce meravigliosa che faceva mille colori, bellissima” e che “ Gesù predicava e e tutti gli altri rispondevano meno di me, che non sapevo cosa rispondere, ma pregavano tutti”. Riferì altresì che “c’era tanta gente, quattro, cinque file di centinaia di persone, piccoli e grandi sollevati da terra e a cerchio” e che erano presenti “tante anime di defunti con il viso per terra e in ginocchio che pregavano e altri in una grande luce”. La mistica di Paravati quando era in vita ha sempre ricordato questo momento così particolare del 26 luglio come il giorno della promessa, “il più bello della mia vita”. Un’esperienza che segnerà per sempre la sua esistenza e l’offerta della sua vita al servizio degli altri e in particolare degli ultimi e dei sofferenti. Una pagina, che è ormai storia, tra le più belle e straordinarie della vita e della missione di Mamma Natuzza, che da quel giorno ha posto costantemente al centro della sua vita umile e silenziosa il Bene e la Carità.

In quello stesso periodo scattò la decisione del  giovane vescovo di Mileto monsignor Paolo Albera di investire del caso della ragazza di Paravati padre Agostino Gemelli, uomo di fede e di scienza -  lo stesso uomo di chiesa che aveva definito padre Pio “psicopatico e isterico” -  il quale senza averla mai esaminata di persona,  classificò tali manifestazioni come “fenomeni di isterismo”, prospettando come unica soluzione, per approfondire adeguatamente il caso, il ricovero della giovane in una casa di cura. “La sola cosa che si può fare -  rispose padre Gemelli - è l’esame del soggetto che non può che essere fatto che in una casa di cura adatta, ove sia sorvegliato da personale appositamente istruito”.

La ragazza venne, quindi, trasportata a Reggio Calabria dove rimase in osservazione del professore Annibale Puca per circa due mesi. Nei suoi confronti durante quei sessanta giorni venne esercitato ogni forma di controllo. Le suore ogni sera le opponevano delle pezze sulle ferite e la mattina le stoffe  presentavano scritte e disegni come rosari e croci. il professor Puca in tutto questo periodo non riuscì in alcuno modo a comprendere  come avvenivano le emografie.  Alla fine la sua diagnosi fu  la seguente: “È un caso bellissimo e nuovo di isterismo”. Nello stesso tempo consigliò come soluzione il matrimonio. Fu questo,  per la giovane Evolo, che proprio in quegli anni aveva manifestato il desiderio di farsi suora, uno dei periodi più difficili della sua vita, ma nonostante il sospetto con cui veniva guardata soprattutto dalla chiesa, lei non si lamentò mai, né mai ebbe nulla da ridire nei confronti di nessuno. Affidò le sue sofferenze al Signore e alla Madonna e continuò a dedicarsi alla preghiera.

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