Rilanciato dalle parole dei giovani dell’Aranceto qualche giorno fa, quello dell’inclusione sociale è un tema su cui tutte le amministrazioni comunali che negli ultimi trent’anni si sono succedute raramente sono riuscite a incidere in maniera forte, specifica, ragionata e strutturata.
Eppure, dovrebbe essere proprio questa l’impostazione da seguire nella definizione delle politiche sociali. A sostenerlo è Giancarlo Rafele, tra i principali operatori del settore in Calabria e presidente regionale e membro dell’assemblea nazionale di LegaCoop sociali: «Negli ultimi decenni abbiamo assistito a livello nazionale ad una trasformazione del welfare. Il nuovo sistema dovrà essere co-programmato e co-progettato da attori pubblici e privati e dovrà essere necessariamente legato al territorio, alla comunità. Per farlo è necessario un cambio di paradigma culturale che consenta di rimettere al centro le persone e non le organizzazioni del Terzo settore; le relazioni e non i servizi».
Il cambio di paradigma si concretizza abbandonando la logica degli interventi isolati e di quelli che non tengono conto delle reali esigenze del contesto a cui si rivolgono: «Un approccio di questo genere richiede un'attenta considerazione delle persone e delle comunità coinvolte. È necessario possedere competenze e capacità nel facilitare i processi partecipativi, nella costruzione e nel mantenimento delle relazioni e della fiducia, nell’accompagnare le persone anziché sostituirsi a loro e credere nel potere delle reti informali. I contesti abitativi condizionano le biografie delle persone, le loro chance di vita, le loro possibilità di proiettarsi o meno nel futuro. Ma a poco servono i Centri sociali se non si prevedono sistemi di engagement, governance e sostenibilità. Se non si attuano, insomma, quelli che ormai vengono definiti progetti di sviluppo di comunità».
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