Strage di Cutro: “Tre ore in mare prima dei soccorsi, pensavamo che l'Italia ci avrebbe salvati”
«Il quarto giorno il mare è diventato brutto. Abbiamo pregato e basta. Dopo l’urto ognuno ha cercato di salvasi da solo, aggrappandosi a dei pezzi di legno della barca». È partito da qui il racconto di uno dei superstiti del naufragio del caicco "Summer Love" dello scorso 26 febbraio a Steccato di Cutro che ha causato la morte di almeno 86 migranti. L'uomo di origini pachistane è stato ascoltato nel corso dell’incidente probatorio - iniziato con qualche ora di ritardo per le difficoltà a reperire un interprete afghano - che s'è tenuto ieri davanti alla giudice del Tribunale dei minori di Catanzaro, Donatella Garcea, per accertare l'eventuale responsabilità in capo al 17enne del Pakistan accusato di essere stato uno dei presunti scafisti che avrebbero condotto l'imbarcazione dalla Turchia. «Prima di partire - ha spiegato il teste rispondendo alle domande della pm della Procura minorile, Maria Rita Tartaglia, e degli avvocati - gli scafisti non ci hanno detto se l’arrivo sarebbe stato sicuro o insicuro, sulla spiaggia o in un porto. Ma noi contavamo sul fatto che appena giunti nelle acque italiane ci avrebbero salvato». E poi: «Nessuno degli scafisti ha aiutato noi passeggeri naufraghi dopo l’urto - ha concluso - c'erano solo due carabinieri in spiaggia che aiutavano. Anche io ho salvato persone. Ho nuotato dieci, dodici minuti per arrivare a terra». Così invece un altro testimone pachistano sollecitato dalle domande della pubblico ministero: «Mi hanno fatto stare sempre sottocoperta - ha detto -. Non mi sono reso conto che il mare era così tanto agitato, da sotto non si sentiva. Poi mi sono molto preoccupato. Non ho ancora pagato il prezzo: 8.100 euro». Per poi aggiungere: «Gli scafisti mi hanno rassicurato - ha evidenziato il superstite - ma da chi aveva affrontato il viaggio prima di me sapevo che, giunti nelle acque italiane, saremmo stati salvati. Sapevo che l’Italia protegge. E quando sono arrivato sulla spiaggia c'erano solo un pescatore e due carabinieri». Mentre il terzo sopravvissuto chiamato a testimoniare, un siriano che nella tragedia del mare ha perso un nipote di 6 anni, ha raccontato che «poco prima dello scontro con la secca, gli scafisti turchi erano scesi nella stiva per informare i migranti che sarebbero arrivati a breve e quindi avevano messo il motore del caicco al massimo, rompendo poi la leva per evitare di poter decelerare». Al riguardo, Francesco Verri, uno dei quattro avvocati che gratuitamente assistono i familiari delle vittime, s'è soffermato sui soccorsi tardivi ai profughi per i quali - com'è noto - la Procura di Crotone ha aperto un secondo fascicolo per accertare possibili inadempienze, omissioni o responsabilità. «Dopo lo schianto la barca si è allontanata e sono rimasti, lui e i due nipoti, al largo in acqua per tre ore. Il bimbo, lo ha ribadito in aula, è morto di freddo dopo un’ora e i soccorsi sono arrivati dopo altre due ore con il gommone della Guardia costiera. Si sono perse tre ore e questo ora è un dato processuale». ha chiosato Verri. L’incidente probatorio«Si è trattato di un confronto che s'è risolto a favore del ragazzo», ha commentato invece l'avvocato Salvatore Perri che assiste l'ipotizzato giovane trafficante di uomini. «In realtà - ha sottolineato il difensore del minore al termine dell’udienza - non lo hanno riconosciuto come presunto scafista. Hanno riconosciuto il ragazzo come uno dei pakistani che ha viaggiato con loro specificando che aiutava le persone a prendere posto, ad alzarsi per salire in coperta traducendo o fisicamente. Quello che il mio assistito dice dall’inizio».
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