Graffi, schegge, grumi sanguigni e aculei spezzati, guizzi che percuotono la tela simili a fulmini su un mare cinereo, plumbeo come l’inverno nei fiordi. Tra glaciazioni spettrali e primordiali fuochi fatui, le “macro opere” di Emilio Scanavino, pittore e scultore protagonista di un espressionismo astratto molto in voga nella seconda metà del secolo scorso e ribattezzato da alcuni pittura segnica, raccontano un “non luogo” insieme gelido e ardente. Una dimensione rarefatta, quasi astrale, che appare in tutta la sua enigmatica potenza nell’opera “Come il fuoco nella cenere” che – presentata per la prima volta in occasione della XXX Biennale di Venezia - dà il titolo alla mostra allestita al museo Marca dell’Amministrazione provinciale, visitabile fino al 15 luglio. Le grandi dimensioni e la gamma cromatica dominata da toni scuri interrotti da pennellate rossastre e geometrismi metafisici sono i tratti distintivi delle opere esposte, appartenenti al ventennio tra il 1960 e il 1980. Curata da Greta Petese e Federico Sardella in collaborazione con l’Archivio Scanavino, la mostra raccoglie i dipinti più imponenti e significativi dell’artista, nato a Genova nel 1922 e morto a Milano nel 1986: oltre venti opere della piena maturità, come il grigliato "Alfabeto senza fine" del 1974 e l’aggrovigliato "I nostri fiori" del 1973, traducono l’ispirazione di un artista solitario e schivo, completamente dedito all’arte, come lo descrive il figlio, Sebastiano Scanavino, anche lui presente al vernissage della mostra. «Dipinti amari, dai toni profondi e tratti nitidi»: così definisce i lavori di Scanavino il direttore artistico del Museo Marca, Rocco Guglielmo. Entrato in contatto con la pittura di Francis Bacon, Philip Martin, Eduardo Paolozzi e Graham Sutherland, l'artista nella sua Liguria ha dialogato con Roberto Sebastian Matta, Wilfredo Lam e Lucio Fontana, per poi formarsi ancora con gli altri spazialisti, i nucleari e i maggiori esponenti del gruppo Cobra. Infine il sodalizio con Carlo Cardazzo e la maturazione di una sensibilità umbratile, evidente nella scelta di certe forme spinate che richiamano scheletri, sterpi e radici, matasse e ragnatele. Segni scavati o graffiati sulla tela, altrove invece liscia e quasi monocroma. Sperimentazione inesausta e impiego di materiali poveri, amplificati dall’impatto dell’ampia dimensione, alludono a uno slancio “onnicomprensivo“ che fa il paio con la simbologia “pitagorica” di alcuni dipinti. La mostra ha richiamato artisti innovativi, noti nel circuito nazionale e internazionale, che già hanno esposto le loro opere al Marca come il calabrese Cesare Berlingeri e la romana Veronica Montanino, senza dimenticare il gallerista milanese Antonio Addamiano di Dep Art. Tutti ad ammirare le forme nervose e puntute, le ragnatele, i viluppi, le venature e il debordante talento di un artista che sembra tendere verso l'esterno del quadro, oltre i limiti della sua finitezza.