«Falcone e Borsellino sono stati traditi in vita, un gruppo consistente di magistrati sabotò la carriera professionale di entrambi. Nelle celebrazioni del trentennale c’è il rischio che il ricordo di Falcone sia retorico quando non si racconta come è stato bocciato ovunque: al Consiglio superiore della magistratura, a Palermo, come commissario straordinario antimafia». Parole pronunciate quasi sottovoce da Roberto Saviano nel ricordare i due magistrati uccisi nelle stragi del 1992. Lo scrittore, che da anni vive sotto scorta, ieri sera è stato ospite del festival Trame a Lamezia, dove ha ripercorso la genesi e l’evoluzione del suo libro “Solo è il coraggio”, dedicato al giudice Giovanni Falcone.
«Si considera sempre – ha fatto notare – la figura eroica e integerrima del magistrato ucciso da Cosa nostra. Ma non si dice che la strage di Capaci è arrivata dopo una serie di tappe in cui le istituzioni hanno lasciato da solo Falcone. Un lungo periodo in cui la macchina del fango lo ha sommerso di insinuazioni e false accuse». L’autore di Gomorra si è poi soffermato sul fatto che le mafie stiano riemergendo più forti e spavalde di prima, dopo un lungo periodo di apparente latitanza. Una situazione che Saviano ha definito «allarmante. Sembra di essere tornati indietro di almeno 15 anni».
Sul trentennale delle stragi mafiose che il festival Trame sta ricordando in questi giorni, lo scrittore ha asserito: «Spesso gli anniversari hanno una connotazione retorica. Tuttavia sono contento di essere a Trame che si occupa solo di mafie con un taglio ben preciso che consente di ricordare quella storia, grazie alla quale noi esistiamo. Se non ci fosse stato il maxi processo di Palermo noi oggi capiremmo pochissimo degli intrighi criminali delle mafie e dell’avanguardia economica dettata dalle consorterie criminali che sono ormai delle holding potentissime».
Lo scrittore ha poi tenuto a evidenziare come il tema mafia sia scomparso dal dibattito politico, in quanto ormai marginalizzato. «Ammazzano di meno – ha ribadito – ma il peso dei morti vale niente e comunque il fronte antimafia si è sgretolato. Il nostro sistema giudiziario è lento, spesso inefficace, l’infiltrazione criminale è fortissima. Eppure siamo il Paese con le migliori leggi antimafia del mondo».
Riguardo a Trame, il festival dei libri sulle mafie giunto all’undicesima edizione, Saviano ha voluto puntualizzare: «Non è facile fare una manifestazione simile in una regione difficile e complessa come la Calabria. Il festival, in un territorio come questo, non è un evento fine a se stesso ma serve realmente per aprire nuovi percorsi soprattutto per le giovani generazioni».
A Trame, sempre ieri, ha partecipato anche lo storico Enzo Ciconte che insieme alla giornalista Angela Caponnetto ha dissertato sul tema “Povertà e disuguaglianze, le armi delle mafie”. Ciconte ha fatto la storia delle organizzazioni criminali partendo dall’Ottocento per approdare poi alla strage di Portella della ginestra del primo maggio 1947 «di cui fu autore non solo il bandito Giuliano e la sua banda ma anche la mafia. Si è trattato – ha affermato Ciconte – della prima grande strage d’Italia».
Sui fatti del ’92, lo storico ha sostenuto: «Le stragi di Capaci e via D’Amelio hanno chiuso una fase storica e ne hanno aperto un’altra. I corleonesi, autori delle stragi, sono stati catturati e spediti al 41bis. Questa è un ciclo chiuso, finito, ma non è finita la mafia».
L’analisi di questi ultimi anni è partita dal 2008, da quando cioè «è iniziata una crisi economica spaventosa e la gente, non riuscendo a tirare fino alla fine del mese, non si è più preoccupata della mafia. Poi è arrivato il Covid e poi la guerra». Una situazione di grave precarietà e incertezza in cui, secondo Ciconte, «non basta la magistratura a risolvere i problemi della presenza mafiosa. In questi anni – ha precisato – le forze dell’ordine hanno fatto tutto quello che potevano. Tuttavia, oggi i mafiosi anche se non si possono candidare fanno politica lo stesso e i poveri, che sono sempre più numerosi, diventano massa di manovra da comprare anche con poco. Abbiamo gli strumenti per affrontare questa realtà ma manca la volontà politica e quella sociale».
Ciconte ha puntato il dito contro la sinistra politica che «se non affronta la disuguaglianza sociale non può più definirsi sinistra. Ciò significa – ha convenuto lo storico – che in questi anni qualcosa non ha funzionato. La partecipazione al voto diminuisce sempre più, la democrazia non è partecipata. L’Italia che è un regime parlamentare deve rimanere tale: il Parlamento è e deve continuare a essere sovrano».
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