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Da Maida per stupire l’Italia con la buona pizza

È partita da Bologna – dove si sono laureati in Economia – l’attività imprenditoriale dei fratelli Aloe, proprietari della catena “Berberè”

Segni particolari? Fratelli. E un' unione, quella di Matteo e Salvatore Aloe, che fa la forza. Una grande forza. Sono arrivati a Bologna da Maida, il paese del Lametino che, ironia del destino, ha come simbolo una donna che impugna una spada per difendere il pane. E quando pensano alla loro terra la definiscono semplicemente “casa”. Un nome semplice, che si impara ad articolare subito, ma che racchiude un mondo ricco di emozioni e tradizioni.
L'Emilia Romagna, invece è stato il luogo dove è maturata l'idea imprenditoriale che ha dato vita al primo locale “Berberè”, che ha fatto germogliare nel tempo tanti “piccoli figli” con una sola mission: sfornare pizze buone e genuine.
Tantissimi sono i riconoscimenti ottenuti come l’assegnazione dei “Tre spicchi”, massimo trofeo assegnato dalla prestigiosa guida “Pizzerie d’Italia 2022” del Gambero Rosso per il quinto anno consecutivo. Una storia intensa quella dei fratelli calabresi che rappresentano l'Italia che produce e che preferisce il verbo “fare”.
Matteo e Salvatore, da studenti eravate sempre alla ricerca di una buona pizza. Cosa avete studiato? E come nasce l'idea di aprire una pizzeria tutta vostra? 
«Salvatore – afferma Matteo – è più grande di me e si trasferì da Maida a Bologna per studiare Economia. Dopo la laurea ha iniziato a lavorare nel mondo del retail. Io invece ho frequentato la facolta di Economia e Marketing e, già durante gli studi, lavoravo nei ristoranti per mantenermi. La mia tesi di laurea? “Restaurant marketing”, un argomento che mi ha sempre appassionato. Come tutti gli studenti squattrinati mangiavamo molta pizza e così ci siamo accorti come la città non avesse una pizzeria di qualità. Da un nostro desiderio personale è, quindi, partita l'avventura, anche se ci sono voluti molti mesi prima di giungere all’inaugurazione di un locale a Castel Maggiore, in provincia di Bologna, aperto nel 2010. All’epoca, anche se non parliamo di tanto tempo fa, il mondo della pizza era statico e stanco. Il nostro obiettivo è stato chiaro fin dall’inizio: creare un locale dove trovare una pizza buona, utilizzando solo lievito madre, digeribile, preparata con ingredienti selezionati in un contesto giovane, contemporaneo e informale».
Chi vi ha supportato?
«Diciamo che “Berberè” numero uno è stato un prodotto di famiglia, aperto con i nostri pochissimi risparmi, a cui si sono aggiunti quelli di parenti e amici che ci hanno creduto e ovviamente un prestito della banca. Poi Lucio Cavazzoni, ex presidente di “Alce Nero” (una cooperativa formata da agricoltori e contadini di tutto il mondo che produce prodotti biologici e che insieme ai fratelli ha sviluppato le farine, ndc) che è venuto a cena da noi spinto dalle figlie che gli parlavano di un’ottima pizzeria, nel 2013 ci ha proposto di prendere in gestione il locale in centro a Bologna allora gestito appunto da “Alce Nero”. È stato un passo determinante per la nostra crescita».
Quali sono stati i primi feedback? E qual è il punto di forza di “Berberè”?
«Il primo locale lo abbiamo aperto in un centro commerciale di provincia. Non avevamo le patatine, né la Coca Cola e i prezzi erano leggermente più alti. Per i primi tre mesi le persone consultavano il menù e sembravano un po’ scettiche, molte andavano via. Ma chi assaggiava la nostra pizza ne rimaneva entusiasta, e poco dopo, grazie anche a una recensione su “Repubblica Bologna”, si è cominciato a parlare di noi. Così sono aumentate le persone che apprezzavano la nostra proposta e che hanno sempre creduto nella nostra filosofia».
Dalla prima inaugurazione bolognese quanti punti vendita avete avviato in Italia e non solo?
«Oggi abbiamo 15 pizzerie in Italia (Torino, Milano, Verona, Roma, Castel Maggiore e Bologna) e una a Londra. Non siamo un franchising, la gestione di tutti i locali è diretta, abbiamo un ufficio centrale a Bologna dove 12 persone si occupano dell’organizzazione assieme ai responsabili di ogni pizzeria. La nostra mission? Quella di essere persone che servono una pizza da lievito madre molto buona. E lo fanno con gentilezza e senza fronzoli, in un ambiente accogliente e bellissimo. Lavoriamo con ingredienti biologici e il nostro unico dogma è la qualità».
Quando avete lasciato la Calabria e cosa vi manca della vostra terra?
«Entrambi all’età di 18 anni. Sarebbe stato interessante tornare dopo gli studi, ma non c’è stata l’opportunità. È bello incontrare calabresi che hanno storie di successo a Milano, Roma o Londra ed è un po’ triste pensare che queste storie sarebbero potute fiorire a casa. Che alla fine è quello che manca e non è cosa da poco».
Quali sono i vostri tratti distintivi e, soprattutto, come vi definireste?
«Domanda difficile, dovremmo chiederlo a qualcun altro. Non è semplice per due fratelli rispondere. In ogni caso sia caratterialmente sia professionalmente ci completiamo. Salvatore si occupa più della parte finanziaria e istituzionale dell’azienda, nonché dello sviluppo, mentre io sono più a contatto con la fase operativa: dallo staff al prodotto. Entrambi condividiamo ogni decisione o problema. Lo analizziamo assieme, per poi trovare quella che, riteniamo, possa essere la soluzione migliore. Ma questo lo facciamo anche con altre persone in azienda».
Vi piacerebbe un giorno investire in Calabria?
«Certo, non lo escludiamo e sarebbe bello lavorare in Calabria. Conosciamo tante realtà che, grazie alla qualità, hanno ottenuto un meritato successo e speriamo che questi casi si ripetano».

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