Lasciate ogni speranza o voi che entrate. Il nono verso del terzo canto dell’Inferno dantesco è l’espressione più consona e incisiva per descrivere la sensazione che si prova quando si entra al campo rom di Scordovillo. Attraversato il vecchio arco di pietra dell’ingresso principale da via Miceli ci si ritrova in una spianata fatta di catapecchie e container che stanno lì da qualche decennio. Alloggi di fortuna che non si possono definire case; tuttavia, all’interno vi vivono circa settecento persone in condizioni di promiscuità e di fortissima emergenza sanitaria. Ieri mattina i rappresentanti delle associazioni “Donne e Futuro” (Karin Maria Faistnauer Catanese e Bianca Lillo), “Italia Nostra” (Giuseppe Gigliotti) e “Malati cronici” (Giuseppe Marinaro), hanno effettuato l’ennesimo tour tra le baracche e le cataste di rifiuti che caratterizzano l’insediamento. Una visita che ha il sapore di un supplizio in un girone infernale, tra dannati ormai assuefatti alla loro vita grama, rassegnati ad un destino infame. Il campo sembra deserto, disabitato, poi uno ad uno i residenti escono dalle loro abitazioni “sgarrupate”, iniziano a fare domande, a chiedere il perché di quella visita. Gli sguardi sono torvi, i visi corrucciati, il malumore regna sovrano dopo la retata antidroga di qualche giorno fa. Gli animi si scaldano e viene fuori tutto il malessere e la rabbia di sentirsi abbandonati, presi in giro con promesse ripetute troppe volte: parole che non hanno mai trovato riscontro nei fatti. «Tutti vengono a dirci che non è giusto che viviamo in queste condizioni, pure quelli della televisione sono venuti, ma poi non succede mai nulla. Restiamo sempre qua; ma noi non ci vogliamo rimanere più a Scordovillo: vogliamo una casa come ce l’hanno tutti. Vogliamo andare via perché i nostri figli vogliono stare in una casa vera». Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Catanzaro