Da 'Gomorra' a 'L'Immortale': a Catanzaro è l’ora di Marco D’Amore, l’attore e regista campano protagonista della terza giornata della 17esima edizione del 'Magna Graecia Film Festival', rassegna cinematografica ideata e diretta da Gianvito Casadonte, in corso nel capoluogo calabrese fino a sabato 8 agosto.
D’Amore è in lizza con la sua opera prima dietro la macchina da presa, 'L'Immortale', presentato in una conferenza stampa. Nelle riflessioni di D’Amore è inevitabile l’intreccio tra il film e la serie tv, anche se il regista ha tenuto a ribadire l’'autonomià della sua pellicola.
«Il rischio è stato quello di dover portare la gente dal salotto alla sala cinematografica, per questo siamo partiti bassi con il film, ma possiamo dire di aver vinto la scommessa», ha detto D’amore. «Ero convinto che questo salto sarebbe stato possibile e così è stato. Anche perchè 'L'Immortale' a mio avviso non è uno spin-off, non è nè un prequel nè un sequel, anche perchè già prima della fine della terza stagione della serie, nel 2016, abbiamo iniziato a scriverlo».
«'L'Immortale'», ha proseguito l’attore e regista campano, «è un progetto unico sul piano produttivo, un racconto cinematografico e, infatti, ha attirato anche tanti che non avevano visto 'Gomorra'. Il mio obiettivo era creare un ponte tra cinema e tv. Quanto alla critica di aver fatto un film commerciale, rispondo: e quindi? Dov'è il problema?».
D’Amore ha poi evidenziato la «specificità» dell’opera, rappresentata dall’ambientazione negli anni '80, l’infanzia del protagonista nel dopo terremoto a Napoli e in Irpinia: «Questo aspetto», ha evidenziato l’attore e regista, «è il più grande 'tradimento' che si poteva fare a 'Gomorra'. La serie ha una sua scrittura e non considera la possibilità di andare indietro come abbiamo fatto noi. Anche sul piano tecnologico abbiamo usato un formato cinematografico sperimentale di cui nessuno si è accorto. Poi, il risultato è lasciato al pubblico».
D’Amore si è soffermato sul personaggio di Ciro Di Marzio adolescente, interpretato nel film dal piccolo Giuseppe Aiello: «La Lettonia», ha raccontato l’autore, «è un luogo non solo fisico ma emotivo, freddo, orizzontale, a significare il bilancio di un uomo che fa i conti con i propri fallimenti, mentre il ruolo di Giuseppe voleva trasmettere anche una positività. Purtroppo, lo dico non con rabbia ma con rammarico, il cinema italiano si è mostrato miope nel non riconoscere la bravura di questo ragazzino: veniva da Scampia, quindi è cresciuto in un contesto molto violento, ma lui è arrivato con grande dignità, mi ha detto 'io sono buono', aveva bisogno di comunicare il suo candore».
Inevitabile la riflessione su quanto D’Amore ci sia in Ciro Di Marzio e viceversa:
«Io ho avuto possibilità che Ciro non ha avuto, in generale», ha detto D’Amore. «Io ero completamente distante da quel tipo di personaggio, facevo teatro poi sono stato 'tirato dentro' da Sollima. Ma alla fine c'è sempre uno scambio tra attore e personaggio: io ho messo dentro il personaggio quell'umanità che crea il conflitto e forse per questo ha suscitato tanto interesse. Perchè se non c'è conflitto non c'è narrazione».
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