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Tre “cani sciolti”
chiedono il pizzo nel
quartiere dei Torcasio

  «Schegge impazzite». Così il capo del commissariato lametino Antonio Borelli ha definito i tre lametini arrestati ieri per estorsione: Michele Sorrentino di 68 anni, suo figlio Marco di 22, e il complice 24enne Giovanni Caruso. Hanno intascato il “pizzo” di 700 euro da un artigiano che da pochi mesi aveva aperto l’attività a Capizzaglie. Si tratta del quartiere che fino a qualche mese fa era considerato il “regno” dei Torcasio, che dopo essersi messi contro il clan Giampà sono stati letteralmente decimati. Le forze dell’ordine hanno lavorato sodo e ne hanno messo tanti in galera. Il quartiere a Sud della città adesso è senza controllo. Ed i cani sciolti pensano di poter imporre il pizzo, fuori dalla “giurisdizione” dei Torcasio, dei Giampà o di chiunque un tempo avesse il controllo sulle attività criminali e non. Nessuno fino a poco tempo fa si sarebbe neanche sognato di andare a chiedere il “pizzo” a un piccolo o grande imprenditore senza chiedere il permesso. Ma sembra che i due Sorrentinom col supporto di Caruso, l’abbiano fatto. Così assicurano il questore Guido Marino, il commissario Borelli e la sua vice Lucia Cundari. In apparenza sembra un gioco da ragazzi. In una città dove tutti pagano la protezione dei clan, come hanno più volte ribadito i quattordici tra boss e gregari che adesso collaborano con la giustizia, basta fare la faccia da duri e gridare qualche minaccia per intimidire e fare aprire il portafoglio di commercianti, artigiani e professionisti. Ma quando viene a mancare la forza intimidatrice viene meno anche la paura delle vittime. I tre uomini, secondo una ricostruzione della polizia di Stato lametina, avrebbero avvicinato l’artigiano con la fatidica frase “o paghi o ti spariamo”. Un aut aut che prima funzionava alla perfezione, ma adesso non più come una volta: tanti Torcasio si trovano al cimitero e molti dei Giampà che contano sono in galera o addirittura pentiti. Altri ancora, come il boss ereditario Giuseppe Giampà, figlio del temutissimo Francesco il “Professore”, stanno accusando i loro dipendenti dei delitti più sanguinosi, omicidi a raffica. Sorrentino padre e figlio, col giovane Caruso, avrebbero rifiutato i 500 euro sborsati dalla vittima. Troppo pochi per loro. Ma il piccolo imprenditore s’è rivolto alla polizia, non ne poteva più. Così quando ieri mattina i Sorrentino sono andati a prelevare dall’artigiano come fosse il loro bancomat 700 euro in banconote da 50 e 100 è scattata l’operazione. Ad appostarli c’erano i poliziotti del commissariato. Che prima hanno fatto incassare la mazzetta agli estortori improvvisati, ed a 50 metri dal luogo dell’incasso li hanno bloccati con i soldi in tasca. O le mani nella marmellata. Dilettanti che nel loro curriculum hanno poche stellette: Marco Sorrentino e Giovanni Caruso sono sottoposti all’avviso orale di polizia ed hanno precedenti per spaccio di droga. Per loro, ed anche per Michele Sorrentino, il sostituto procuratore lametino Luigi Maffia ha disposto il carcere. «I tre che abbiamo arrestato non sono mafiosi, ne siamo sicuri », dichiara il questore Guido Marino in conferenza stampa al commissariato, «ma si tratta di un’estorsione che non ha nulla da invidiare a quelle dei clan, un’estorsione in piena regola». Marino parla di Lamezia: «Questa viene sempre indicata come una città omertosa, dove nessuno parla, ma questa volta c’è la prova del contrario». Mettendo così in risalto la collaborazione dell’imprenditore sottoposto al pizzo. «Non faccio appelli, ho sempre ritenuto che non ce ne sia bisogno, ma l’abilità della polizia è stata ampiamente dimostrata con questa operazione. Ecco perchè invito i lametini a riflettere, devono scegliere da che parte stare, ma senza fare gli eroi». Per il dirigente del commissariato Borelli «c’è stata una vera e propria scompaginazione degli equilibri mafiosi sul territorio, dobbiamo capire cosa sta succedendo adesso».

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