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Trema il clan Mancuso, si pente uno dei rampolli

Trema il clan Mancuso, si pente uno dei rampolli

Avrebbe reso dichiarazioni e si troverebbe già a Rebibbia sotto programma di protezione. Un altro esponente della criminalità organizzata vibonese avrebbe deciso di fare il salto, ma questa volta – qualora la notizia fosse confermata considerato che al momento il riserbo è più che assoluto – il “salto” potrebbe fare molto rumore e innescare un effetto domino inarrestabile.

Da indiscrezioni, infatti, a decidere di collaborare con la Dda sarebbe stato Emanuele Mancuso, 30 anni, esponente dell’omonima famiglia di ’ndrangheta di Limbadi, figlio del boss Pantaleone Mancuso (detto l’Ingegnere) e nipote di esponenti di alto rango della cosca: dai fratelli del padre – Peppe (alias ’Mbrogghia) uno dei capi storici, Diego ( Mazzola), Salvatore e Rosaria (quest’ultima ritenuta la mandante dell’autobomba del 9 aprile scorso) – agli zii, tra i quali l’anziano boss Antonio Mancuso (del ‘38), il capo storico Luigi Mancuso e i fratelli – i boss Giovanni e Michele (tutti e quattro della cosiddetta “Generazione degli 11”) – e il boss Pantaleone Mancuso ( Scarpuni). Insomma un palmares di tutto rispetto negli ambienti criminali internazionali. Una genealogia pesante dalla quale, però, Emanuele Mancuso avrebbe preso le distanze. E al di là di quella che potrebbe essere la portata delle sue dichiarazioni a fare più rumore sarebbe il fatto che, nella famiglia Mancuso, nessuno finora si è mai pentito. Nè capi, nè luogotenenti e neppure soldati. In questo contesto, dunque, la decisione del 30enne, nel caso in cui avesse realmente deciso di vuotare il sacco, sarebbe di enorme portata. Dopo il pentimento di Raffaele Moscato e quello dell’ex boss emergente di Vibo Andrea Mantella, la collaborazione di Emanuele Mancuso sarebbe un altro asso nella manica per la Dda, diretta dal procuratore Nicola Gratteri, la cui attenzione – attraverso il lavoro di tre sostituti procuratori – è puntata anche sul Vibonese e sulle sue dinamiche criminali e diverse inchieste l’hanno dimostrato.

Un asso nella manica per la Dda e, al tempo stesso, un siluro nel fianco della potente cosca che ora trema, lacerata al suo interno dagli attriti esistenti tra le varie articolazioni. Una cosca, comunque, che rimane “fortemente cosca” nel senso che all’esterno raramente trapelano le frizioni interne – a darne un primo spaccato fu soltanto agli inizi del duemila l’operazione “Dinasty” – capace quindi di continuare a mostrarsi granitica al mondo. E che ci fosse acredine tra le varie “ali” era emerso anche lo scorso marzo nell’operazione “Nemea” – in quell’occasione scattò l’arresto di Emanuele Mancuso assieme a esponenti della ’ndrina Soriano di Filandari – e dare voce agli attriti era stato proprio il figlio dell’Ingegnere il quale, in un colloquio con il boss Leone Soriano criticava i parenti e nello specifico alcuni degli “zii grandi” per il comportamento verso il padre e il fratello, lo zio Peppe: «... loro si abbuffavano di soldi e noi, al matrimonio degli zii non ci hanno invitato a nessuno. Solo lo zio Luigi ci invita, ma lo sai perchè? Perché noi ormai questo gioco lo abbiamo capito tutti... quel lato della famiglia là ci tiene buoni buoni per “allisciarci” per non armare guerre, ma fondamentalmente non ci possono vedere a noi dal lato dello zio Peppe (’Mbrogghia ndr), e questa è la storia...».

Più recenti – di qualche mese fa – i commenti di Rosaria Mancuso, zia del 30enne, la quale in un colloquio con un nipote criticava le figlie di suo fratello per il comportamento tenuto nei suoi confronti dopo quanto «successo», presumibilmente il riferimento era all’autobomba. Incomprensioni, quindi nello stesso ramo familiare anche se il nipote ribadiva: «...perché in questi guai gli ho detto io... è cappello di ogni testa», nel senso che un problema grosso è di tutta la famiglia.

Comunque sia le condizioni «per armare una guerra», per dirla con le parole di Emanuele Mancuso, ci sarebbero tutte, anche se al momento gli inquirenti starebbero valutando le dichiarazioni che avrebbe reso, allo scopo di accertarne la veridicità e di capire se sia realmente deciso a collaborare. In poche parole si starebbe procedendo per gradi, anche se il tutto rimane nella sfera delle ipotesi visto che dalla Dda su questa vicenda non trapela assolutamente nulla.

Il caso

Un solo caso, un solo “ripensamento” momentaneo nella storia dei Mancuso non approdato però da nessuna parte, almeno sul piano giudiziario.

Nel marzo del 2011 a presentarsi dai carabinieri chiedendo protezione era Tita Buccafusca, moglie di Pantaleone Mancuso (alias Scarpuni). Per due giorni la donna, arrivata con il figlioletto, rimase nel Comando provinciale dell’arma di Catanzaro. Poi dopo una notte di riflessione chiese di poter chiamare i familiari e con loro lei e il bambino ritornarono a casa.

Nel periodo trascorso con i militari (fu sentita da diversi magistrati) la donna aveva reso alcune dichiarazioni (tre pagine), rifiutandosi però di sottoscriverle. Una sola firma la mise ma in calce alla dichiarazione della volontà di collaborare. Il resto niente da fare.

Il 16 aprile 2011, a distanza di qualche settimana dal suo ritorno a casa, la tragedia. Tita Buccafusca decideva di farla finita. Si chiudeva nel bagno e ingeriva una quantità di acido impressionante (750 ml), tanto da ucciderla, dopo giorni di atroci sofferenze. Un suicidio su cui fu poi aperta un’indagine.

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