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Il credo di Greenaway. Masterclass del regista gallese al Magna Graecia Film Festival

Un film deve essere essenzialmente un «testo illustrato» perché «l’immagine viene prima della parola», anche storicamente

Humour nero, erotismo, violenza, feroce critica sociale, sperimentazione esasperata, visionaria voglia di stupire. Se c’è un regista del cinema anglosassone che evoca le atmosfere “estreme” del teatro elisabettiano e gli eccessi creativi della Golden Age, questo è Peter Greenaway. Ma con una peculiarità, che lo fionda dalla magia - immaginifica ma datata - dell’amato barocco alla più innovativa contemporaneità: la convinzione che l’immagine venga prima della parola, e non solo storicamente come dimostrano le preistoriche pitture rupestri.

Il progetto culturale di Greenaway è spingere il cinema come immagine, evitando che quest’ultima da primordiale mezzo espressivo finisca col diventare un cittadino di seconda classe. Il suo credo è che un film sia essenzialmente «testo illustrato». Dove le singole inquadrature sono realizzate come opere pittoriche, sia che si tratti di scene semplici e spoglie che di forme ridondanti e opulente.
La parola, di conseguenza, non è mai l’ingrediente primario. Lo mette in chiaro subito il poliedrico regista, pittore e scrittore gallese che il Magna Graecia Film Festival ha voluto tra i grandi ospiti internazionali protagonisti delle proficue masterclass offerte al pubblico della kermesse diretta da Gianvito Casadonte.

A supporto di questa fulminante premessa che punta a scardinare i dogmi dei cineasti del passato, Greenaway ha proposto agli spettatori dell’evento, ieri tenuto al Supercinema di Catanzaro, una serie di sofisticate, eleganti clip che riassumono il suo rivoluzionario approccio all’arte filmica. Soundtrack martellante e “palette” in bianco e nero per la prima, una sequenza di immagini delle migliaia di bombe atomiche che dal 1945 sono state fatte esplodere sul pianeta. Segue una seconda raffinata proiezione, con inquadrature di località italiane che all’improvviso cedono il posto a un proliferare di ritratti di una misteriosa contessa di cui una voce fuori campo anticipa il grottesco suicidio, murata viva per evitare di amare l’uomo sbagliato.

L’immagine è trasfigurata, moltiplicata e manipolata dal racconto filmico dell’artista, forse il più trasgressivo maestro del cinema contemporaneo. E ancora, ecco l’Ultima cena di Leonardo da Vinci che diventa pretesto per una destrutturazione di straordinario impatto visivo. Obiettivo: spiegare come si possa rendere rilevante, moderno e foriero di nuovi significati un dipinto del passato di cui si è detto e scritto di tutto. Poi un richiamo alla «seria contemplazione della morte» da cui l’ottantenne Greenaway si sente coinvolto per ragioni anagrafiche, attraverso un potente effetto accumulo di spezzoni tra erotici e scabrosi dove non esiste trama (altro elemento ritenuto inutile) ma il dialogo tra immagini e testo è più che eloquente.

Una vera lezione magistrale, quella che il regista nato a Newport ma educato a Londra, ha voluto proporre, dimostrando grande considerazione per la cultura italiana di cui si è definito convinto estimatore. Nessun indulgere, da parte sua, sulla sua straordinaria produzione - tra cui figurano capolavori come “I misteri del giardino di Compton House”, “Il ventre dell'architetto”' e “I racconti del cuscino” - che lo pone di diritto tra i mostri sacri del cinema d’autore. Ma solo idee, spunti, suggestioni geniali che spalancano nuovi orizzonti.

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