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Lea Garofalo, Cosco: «Ho aiutato a nascondere il cadavere ma non l'ho uccisa io»

«Ho un fratello (Carlo, ndc) più piccolo di me che commise un grave delitto e, a cose già fatte, coinvolse anche me. Vorrei che ci fosse un grosso pulsante rosso da poter pigiare e, all'improvviso, il mondo che va all'indietro, all'indietro fino a quel maledetto momento, quando avrei potuto capire, rifiutarmi e, forse, se più attento e partecipe della vita familiare, comprendere quello che stava accadendo e fermarlo. Non posso farlo, non c'è quel “pulsante rosso”, non posso cambiare il passato».

Sono parole di Vito Cosco, detto Sergio, oggi 51 enne, che dal carcere di Opera, dovrà scontare la pena dell'ergastolo per l'uccisione di Lea Garofalo, la testimone di giustizia scomparsa, uccisa e poi bruciata il 24 novembre 2009 a San Fruttuoso, vicino Monza. Vito Cosco è stato condannato dalla Corte di Cassazione alla pena dell'ergastolo assieme al fratello Carlo, Rosario Curcio, Massimo Sabatino, mentre Carmine Venturino, detto Pillera, dovrà scontare 25 anni di reclusione.

Aiutato per la sua composizione da un altro ergastolano, Alfredo Sole, Vito Cosco si è avvicinato al Gruppo della trasgressione, un'associazione che opera all'interno degli istituti penitenziari milanesi di Milano Opera, Bollate e San Vittore, guidato dallo psicologo Angelo Aparo, il cui obiettivo è quello di sviluppare una sinergia interna e un dialogo costruttivo che portino all'introspezione e a indagare sul passato.

L'articolo completo sulla Gazzetta del Sud - edizione di Catanzaro in edicola. 

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