Due euro, un piccolo gesto, una vincita facile e la convinzione di aver svoltato la propria vita. È quello che innesca il gioco compulsivo, noto anche come ludopatia o gioco d’azzardo patologico. Se il volume di denaro giocato in Italia nel 2019 è aumentato del 3,5%, attestandosi sul valore di 110,54 miliardi di euro, durante la pandemia il “gioco fisico” è sceso a 80 miliardi, con un incremento del 12,5% di quello online.
Ma cosa scatta nella testa dei giocatori? Ce lo raccontano due catanzaresi che sono usciti dal vizio e che, per tutelare la loro privacy, chiameremo A e B. «Ero da poco maggiorenne – afferma A – ora ne ho circa 50, quando feci la prima giocata al video poker. Vinsi 250 mila lire e quello è stato il punto di partenza. Ho pensato che avevo trovato il modo di avere soldi facilmente. Giocavo nelle sale scommesse in ogni momento che avevo libero. Utilizzavo tutto lo stipendio. Mi piaceva l’adrenalina che mi dava il gioco. Quando cadi in questo circolo vizioso non importa se vinci o perdi, devi giocare e basta. Non ti diverti più, diventi un robot. Noi giocatori diventiamo bravi a celare i problemi economici. A mia moglie facevo vedere che in casa i soldi c’erano, mentre servivano per pagare i debiti. Cercavo di arrivare prima di lei per ritirare la posta, col timore che giungesse la lettera di qualche finanziaria che avevo acceso».
«Un giorno – dichiara invece B – trovo al bar una delle prime macchinette e con 1.000 lire di resto del caffè provo a giocare: due tiri e vinco 500 mila lire. A distanza di una settimana decido di riprovare, un’altra vincita. Penso di essere bravo! Per 27 anni non ho smesso. Una delle prime cose che impari è dire bugie. Quella che più ricordo? Quando vivevo con la mia ex moglie, aspettavamo dei soldi per la maternità. Le ho detto che non erano arrivati e li ho utilizzati per andare alle slot. Il nostro rapporto è poi finito a causa del gioco. Non ha retto le bugie, gli sbalzi di umore».
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